Tipo di attività: Collettiva
È sempre più importante ai fini delle nuove politiche, considerare non solo la sostenibilità ambientale, ma anche sociale e umana. È un tema di grande discussione in questo momento.
La squadra risponda alle domande proposte.
Camille Flammarion: L’Atmosphere – Météorologie Populaire, 1888.
Maurits Cornelis Escher, Galleria di stampe (Prentententoonstelling) 1956.
Analizzare alcuni brani e rispondere alle domande.
In economia, il concetto di equilibrio è probabilmente usato con maggiore prevalenza come strumento metodologico nella teoria astratta. Qui, la parola “equilibrio” è impiegata in relazione a modelli contenenti parecchie variabili legate fra loro […]
La nozione di equilibrio è utilizzata in modo diverso quando è adoperata in riferimento a situazioni economiche concrete: in tale contesto, si suppone che essa caratterizzi una situazione storica che è durata o durerà per un periodo di tempo relativamente lungo senza cambiamenti significativi […]
Alla luce della discussione precedente, nell’analisi economica possiamo definire l’equilibrio come un sistema di parecchie variabili correlate, caratterizzate da valori di ciascuna rispetto alle altre tali che, nel modello che esse costituiscono, non prevalga alcuna intrinseca tendenza al cambiamento. Naturalmente, sia il modello che i suoi punti di equilibrio sono costrutti mentali, basati sull’astrazione e sull’invenzione […]
Il mondo reale ha certamente un numero di variabili infinitamente maggiore che in qualunque modello astratto, e le effettive relazioni fra esse non sono note, né – temo – conoscibili, in parte perché è probabile che esse cambino nel tempo in modo imprevedibile. Pertanto, potrebbe non essere osservato alcun equilibrio fra un numero selezionato di variabili, anche se ciascuna di esse avesse un corrispettivo osservabile nel mondo reale […] Solo dopo aver scelto le variabili ed aver ipotizzato le loro relazioni reciproche possiamo parlare di equilibrio e disequilibrio nel senso in cui questi termini sono adoperati nell’analisi economica […] In tale stato di cose, qualunque situazione economica concreta può corrispondere, allo stesso tempo, ad un equilibrio per un modello e ad un disequilibrio per un altro.
Fritz Machlup, Misplaced concreteness and disguised politics, in Essays in Economic Semantics, Prentice – Hall, Upper Saddle River 1963; cit. in “Organizations and Markets”.
L’oggetto dell’economia è costituito dalla concatenazione di eventi unici che compongono la storia umana […] Ogni recessione, ogni inflazione, ogni fissazione di prezzo, ogni svalutazione, ogni scoperta ed invenzione è, in linea di principio, diversa da quelle che l’hanno preceduta […] Nella storia umana – con particolare riguardo ai fenomeni sociali – il cambiamento è un elemento essenziale. Nei fenomeni economici sono il progressivo esaurimento delle risorse naturali, il progresso tecnologico e la modificazione dell’organizzazione giuridica e sociale a rendere unica ed irreversibile la catena degli eventi e dei processi […]
Il compito dell’economia come scienza non è quello di scoprire “leggi eterne” da confrontare con la realtà […] L’indagine economica non si identifica con la spiegazione di fenomeni immutabili che possono essere scoperti nei mercati babilonesi così come nelle tribù di pellerossa, nell’antichità classica, nell’agricoltura medievale e nelle moderne città […] Nel caos della realtà essa tenta di creare piccole isole di ordine intellettuale, nel flusso di eventi storici in continuo cambiamento essa tenta di individuare schemi durevoli e prevedibili. Occorre tuttavia “crearli” e non “scoprirli”, poiché queste isole e schemi razionali non esistono se non per lo sforzo di chi indaga.
Jurg Niehans, Economics: History, Doctrine, Science, Art, in Kyklos, 34(2), 1981, pp. 165-177; cit. in Carlo Alberto Ricciardi, “Economia”, in Gli strumenti del sapere contemporaneo, vol. I – Le discipline, UTET, Torino 1985.
Ammettere che la scienza abbia dei limiti e che li abbia in particolare la matematica non significa svalutarle. Al contrario. Significa riconoscere la dimensione autentica della loro potenza e della loro efficacia. La matematica non è un passe – partout per spiegare o prevedere qualsiasi cosa. Essa è nata sia dalla problematica del contare che dall’osservazione dei corpi inanimati e quindi è difficile che possa rendere molto di più di quanto promettono le sue radici sul piano della descrizione e della previsione. I tentativi di estendere le applicazioni della matematica al di fuori del campo della fisica hanno confermato tale punto di vista: fino a che abbiamo a che fare con processi che hanno una natura essenzialmente meccanica o comunque derivante da processi puramente materiali, oppure aventi un andamento essenzialmente aleatorio, la matematica si rivela uno strumento ancora assai efficace; non appena intervengono fattori soggettivi in cui il più elementare buon senso indica la presenza di scelte libere e autonome, la matematica inizia a incespicare. […]
Lo scientismo danneggia una visione ampia della ragione che includa altri punti di vista oltre a quello fisico – matematico e danneggia questo stesso approccio caricandolo di problemi che non è detto affatto che possa risolvere. Inoltre, si oppone a un punto di vista umanistico che riconosce la specificità degli esseri umani, il fatto che non sono macchine. […]
La matematica è forse la scienza che più di ogni altra è vicina a una visione umanistica. La matematica antica ha riconosciuto i problemi e le antinomie che nascono dalla trattazione dell’infinito e ha evitato di affrontarle. La matematica della Rivoluzione scientifica (la Rivoluzione scientifica è il periodo storico convenzionalmente compreso fra il 1543 (anno di pubblicazione del trattato Le rivoluzioni delle sfere celesti di Copernico) e il 1687, anno in cui fu pubblicata la prima edizione dei Principi matematici di filosofia naturale di Newton) ha invece sfidato la tematica dell’infinito e dell’infinitamente piccolo, senza riuscire a risolvere definitivamente quelle antinomie, ma indicando i modi per manipolare in senso pratico quei concetti. L’aver fatto fronte alla tematica dell’infinito e dell’infinitamente piccolo è ciò che ha stabilito fin dall’inizio stretti legami fra matematica e speculazione filosofica. Per capire a fondo la matematica è necessaria la filosofia e anche la storia della matematica stessa e della scienza. Nessuna forma di attività mentale umana è priva della capacità di portare conoscenza, non lo è neppure la letteratura, come pretende qualcuno; al contrario, la letteratura è una grande fonte di ricchezza conoscitiva. In tal senso, l’invito a coltivare l’umanesimo – a fondare un umanesimo post – digitale – è di grande valore. Ed è anche un modo per nobilitare la matematica più di quanto lo sia agitare la formula “il mondo è matematico” in modo mistico e acritico, occultandone gli insuccessi. Una matematica che pretendesse di riassorbire tutto esprimerebbe la tentazione puerile di ridurre ogni aspetto della realtà a fattori quantitativi, che debbono invece essere lasciati convivere armoniosamente con gli aspetti irriducibilmente qualitativi. Pertanto, un approccio umanistico significa anche salvare la specificità della ricchezza concettuale della matematica nelle sue relazioni con tutte le altre attività conoscitive umane, anziché impoverirla nel tentativo fallimentare di farle assorbire ogni aspetto della realtà.
Giorgio Israel, La matematica e la realtà, Carocci, Roma 2015, pp. 147 – 148; 150 – 151.
Nel campo dell’economia, la sovraspecializzazione è doppiamente disastrosa. Un uomo che è matematico e nulla più che matematico potrà condurre una vita di stenti, ma non reca danno ad alcuno. Un economista che è nulla più che un economista è un pericolo per il suo prossimo. L’economia non è una cosa in sé: è lo studio di un aspetto della vita dell’uomo in società… L’economista di domani (e talvolta dei giorni nostri) sarà certamente a conoscenza di ciò su cui fondare i suoi consigli economici; ma se, a causa di una crescente specializzazione, il suo sapere economico resta separato da ogni retroterra di filosofia sociale, egli rischia veramente di diventare un venditore di fumo, dotato di ingegnosi stratagemmi per uscire dalle varie difficoltà ma incapace di tenere il contatto con quelle virtù fondamentali su cui si fonda una società sana. La moderna scienza economica va soggetta ad un rischio reale di machiavellismo: la trattazione dei problemi sociali come mere questioni tecniche e non come un aspetto della generale ricerca della buona vita.
John R. Hicks, Education in Economics, “Bulletin of the Manchester Statistical Society”, April 1941, p. 6; cit. in S. Zamagni, Economia e filosofia (1994), in “Quaderni – Working Paper DSE” (184).
L’economista eccelso deve possedere una rara combinazione di doti. Deve raggiungere un alto livello in un gran numero di settori diversi, e deve armonizzare talenti che non si trovano spesso congiunti; deve essere, in una certa misura, matematico storico, statista, filosofo. Deve comprendere simboli ed esprimersi mediante parole. Deve osservare il particolare in relazione al generale, ed includere l’astratto ed il concreto con lo stesso atto del pensiero. Egli deve studiare il presente alla luce del passato, per conseguire futuri obiettivi. Nessun aspetto della natura umana e delle istituzioni create dall’uomo deve trovarsi interamente all’esterno della sua sfera di interessi. Deve proporsi di raggiungere degli scopi ed essere contemporaneamente disinteressato, distaccato ed indifferente come un artista e tuttavia a volte a contatto con la realtà come un politico.
John M. Keynes, Alfred Marshall, 1842 – 1924, “The Economic Journal”, Vol. 34, No. 135 (Sep. 1924), p. 322.
Dopo aver letto la scheda sul triangolo caratteristico di Leibniz e quella sul calcolo della tangente ad una curva mediante l’uso di “quantità evanescenti”, risponda alle domande previste dall’attività.
[Secondo Leibniz,] dato un segmento rettilineo, questo non è composto di punti [indivisibili, finiti o infiniti], come si potrebbe credere, ma da un’infinità di altri segmenti più piccoli [Se i punti fossero infiniti, – egli sostiene – fissati due segmenti di lunghezza diversa, ad ogni punto del primo si potrebbe far corrispondere un unico punto del secondo e viceversa, in contrasto con l’assioma euclideo (accettato da Leibniz) che stabilisce che il tutto è maggiore della parteInoltre Leibniz, ragionando per assurdo, dimostra che un segmento non può essere composto da un numero finito di punti indivisibili]. In maniera analoga, qualsiasi corpo è composto di altri corpi: di aggregati di parti divise ad infinitum e non di atomi materiali [ossia porzioni indivisibili di materia]. Risulta in tal modo che quello che a noi, nell’esperienza quotidiana, appare come continuo (il bordo di un tavolo, un righello di legno, la superficie di uno specchio, eccetera) è in realtà un’unione di parti contigue [ossia parti le cui estremità si toccano ma non coincidono, altrimenti sarebbero continue].
(M. Mugnai, Leibniz, Le Scienze, Milano 2002)
La materia è un ente discreto, non continuo, ma soltanto contiguo.
(G. W. Leibniz, De Summa Rerum (1675 – 1676), in M. Mugnai, cit.)
La materia non è un continuo, ma un discreto diviso in atto all’infinito.
(G. W. Leibniz, lettera a B. de Volder (11 ottobre 1705), in M. Mugnai, cit.)
Sono tanto a favore dell’infinito attuale che, invece di ammettere che la Natura lo aborrisca, come si dice comunemente, io sostengo che si manifesta dovunque, per meglio sottolineare le perfezioni del suo Autore. Perciò sono convinto che non vi sia alcuna parte della materia che non sia, non dico divisibile, ma attualmente divisa; pertanto, la più piccola particella dovrebbe essere considerata come un mondo pieno di una infinità di creature diverse.
(G. W. Leibniz, lettera a S. Foucher (fine giugno 1693); or. francese e trad. inglese in O. Nachtomy, Infinity and Life, in O. Nachtomy – J. E. H. Smith (curr.), The Life Sciences in Early Modern Philosophy, Oxford University Press, new York 2014)
[64] Il corpo organico di ogni vivente è una specie di macchina divina o di automa naturale che supera infinitamente tutti gli automi artificiali. Perché una macchina fatta dall’arte dell’uomo non è una macchina in ciascuna delle sue parti. Per esempio, il dente di una ruota di ottone ha parti o frammenti che non sono più per noi qualche cosa di artificiale e non hanno più nulla con carattere di macchina riguardo all’uso cui la ruota è destinata. Ma le macchine della natura, cioè i corpi viventi, sono ancora macchine nelle più piccole parti, all’infinito. Ciò determina la differenza fra la natura e l’arte, cioè la differenza fra l’arte divina e la nostra.
[65] E l’autore della natura ha potuto operare questo artificio divino e infinitamente meraviglioso perché ogni porzione di materia non solo è divisibile all’infinito, come hanno già riconosciuto gli antichi, ma è anche suddivisa attualmente [in atto] senza fine, ogni parte in parti, ognuna delle quali ha qualche movimento proprio; altrimenti sarebbe impossibile che ogni porzione di materia potesse esprimere tutto l’universo.
[67] Ogni porzione di materia può essere concepita come un giardino pieno di piante, e come uno stagno pieno di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro dell’animale, ogni goccia dei suoi umori è ancora un giardino, uno stagno.
[68] E quantunque la terra e l’aria interposta fra le piante del giardino, o l’acqua interposta fra i pesci dello stagno, non siano punto [affatto] pianta né pesce, esse ne contengono tuttavia ancora; ma per lo più di una piccolezza a noi impercettibile.
(G. W. Leibniz, Monadologia (1714), traduzione e cura di E. Colorni, Sansoni, Firenze 1935)
[In Leibniz (Hoepli, Milano 2015), M. R. Antognazza scrive che, sin dai suoi primi scritti di carattere fisico (1671), Leibniz espresse “la visione della realtà della natura come infinita “ripetizione” del medesimo schema. La scoperta di un’infinità di microcosmi, rivelati dalle ricerche di microscopisti come Robert Hooke, Pierrre Borel e Marcello Malpighi, ebbe un ruolo decisivo nella formazione di questo modello esplicativo” (p. 135)].
Le cose reali sono composte come un numero lo è di unità, quelle ideali come un numero è composto di frazioni: le parti sono reali nella totalità reale, non in quella ideale. In effetti, quando cerchiamo le parti reali nell’ambito delle cose possibili, e quelle indeterminate in quello delle cose reali, stiamo confondendo le cose ideali con quelle reali, e ci avviluppiamo nel labirinto del continuo e in contraddizioni inestricabili.
(G. W. Leibniz, lettera a B. de Volder (19 gennaio 1706); trad. inglese in R. T. W. Arthur: Leibniz’s Actual Infinite in Relation to his Analysis of Matter, in D. Rabouin, P. Beeley, N. B. Goethe (curr.), G.W. Leibniz. Interrelations between Mathematics and Philosophy – Springer Verlag (2015)
Nelle cose reali, i componenti semplici sussistono prima dei composti, in quelle ideali la totalità precede le parti. Il labirinto del continuo ha avuto origine dall’aver trascurato questa considerazione.
(G. W. Leibniz, lettera a B. des Bosses (31 luglio 1709); trad. inglese in R. T. W. Arthur, cit.)
Nell’ideale o continuo il tutto è anteriore alle parti, come l’unità aritmetica è anteriore alle frazioni che la dividono e che vi si possono assegnare arbitrariamente: le parti non sono che potenziali; ma nel reale, il semplice è anteriore agli aggregati, le parti sono attuali, vengono prima del tutto. Tali considerazioni tolgono le difficoltà riguardo al continuo, le quali presuppongono che il continuo sia qualcosa di reale e abbia parti prima di qualsiasi divisione [ossia, prima che sia effettivamente suddiviso].
(G. W. Leibniz, lettera a N. Remond (luglio 1714), in M. Mugnai, cit.)
Essendo propriamente il nostro metodo quella parte della matematica generale che tratta dell’infinito, ciò fa sì che se ne abbia gran bisogno quando si applica la matematica alla fisica, poiché il carattere dell’Autore infinito entra abitualmente nelle operazioni della natura.
(G. W. Leibniz, Considerazioni sulla differenza che sussiste fra l’analisi ordinaria e il nuovo calcolo delle [curve] trascendenti (1694), in R. Guénon, I princìpi del calcolo infinitesimale, Adelphi, Milano 2011)
L’analisi che viene spiegata in quest’opera presuppone quella comune, ma ne è molto diversa. L’analisi ordinaria non tratta che di grandezze finite: questa penetra fino nell’infinito stesso. Essa confronta le differenze infinitesime delle grandezze finite; scopre i rapporti di queste differenze, e per questa via fa conoscere quelli delle grandezze finite [si veda la scheda sul “triangolo caratteristico”], le quali confrontate con questi infinitesimi sono come altrettanti infiniti. Si può dire addirittura che questa analisi si estende al di là dell’infinito, poiché non si limita alle differenze infinitesime, ma scopre i rapporti delle differenze di queste differenze, e ancora quelli delle differenze terze, quarte e così via, senza mai trovare un termine che la possa fermare. Di modo che essa non abbraccia solamente l’infinito, ma l’infinito dell’infinito, o una infinità di infiniti.
(G. F. A. de L’Hôpital, Analisi degli infinitamente piccoli per la comprensione delle curve (1696), in U. Bottazzini, P. Freguglia, L. Toti Rigatelli, Fonti per la storia della matematica, Sansoni, Firenze 1992)
Il macrocosmo delle grandezze finite e il microcosmo degli infinitesimi sono essenzialmente isomorfi [due insiemi A e B si dicono isomorfi se essi hanno le stesse proprietà strutturali]. Ogni punto [dello spazio, a livello microscopico] ha una nuvola di parti distinte ma non distanti, che rispecchiano quelle del continuo macroscopico […] Ma se il continuo macroscopico si ritrova in quello microscopico, allora quest’ultimo deve avere anch’esso una struttura […] nella quale ogni punto ha una nuvola locale di infinitesimi. Si potrebbero così introdurre delle strutture differenziali di secondo ordine, poi di terzo e così di seguito, corrispondenti agli ordini di infinitesimo definiti da Leibniz.
(E. Giusti, Immagini del continuo, in A. Lamarra (cur.), L’infinito in Leibniz – Ed. dell’Ateneo, Roma 1990)
Che non bisogna cercare di comprendere l’infinito, ma solo pensare che tutto ciò in cui non troviamo nessun limite è indefinito.
Così noi non ci avvolgeremo mai nelle dispute dell’infinito; poiché sarebbe ridicolo che noi, che siamo finiti, cercassimo di determinare qualcosa, e con questo mezzo supporlo finito tentando di comprenderlo. Ecco perché noi non ci cureremo di rispondere a quelli che domandano se la metà di una linea infinita è infinita, se il numero infinito è pari o dispari, e altre cose simili, poiché solo quelli che s’immaginano che il loro spirito è infinito sembra debbano esaminare queste difficoltà. E quanto a noi, vedendo cose nelle quali, secondo un certo senso, non osserviamo affatto dei limiti, non asseriremo, per questo, che esse sono infinite, ma le crederemo solo indefinite. Così, poiché non sapremmo immaginare un’estensione sì grande da non concepire in pari tempo che può essercene una più grande, diremo che l’estensione delle cose possibili è indefinita. E poiché non si potrebbe dividere un corpo in parti sì piccole, che ognuna di queste parti non possa essere divisa in altre minori, noi penseremo che la quantità può essere divisa in parti, il cui numero è indefinito. E poiché noi non sapremmo immaginare tante stelle che Dio non ne possa creare di più, noi supporremo che il loro numero è indefinito, e così via.
Che differenza c’è fra indefinito e infinito.
E noi chiameremo queste cose indefinite piuttosto che infinite, al fine di riservare a Dio solo il nome d’infinito; sia perché non notiamo limiti nelle sue perfezioni, come anche perché siamo sicurissimi che non ce ne possono essere. Per ciò che è delle altre cose, noi sappiamo che esse non sono così assolutamente perfette, poiché, sebbene vi notiamo qualche volta delle proprietà che ci sembrano non aver limiti, nondimeno conosciamo che ciò procede dal difetto del nostro intelletto, e non già dalla loro natura.
(Descartes, I princìpi della filosofia, in Descartes, Opere (a cura di E. Garin), Laterza, Bari – Roma 1967)
Non resta, dunque, che la sola idea di Dio, nella quale bisogna considerare se vi sia qualche cosa che non sia potuta venire da me stesso. Con il nome di Dio intendo una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente, e dalla quale io stesso, e tutte le altre cose che sono, (se è vero che ve ne sono di esistenti) siamo stati creati e prodotti. Ora, queste prerogative sono così grandi e così eminenti, che più attentamente le considero, e meno mi persuado che l’idea che ne ho possa trarre la sua origine da me solo. […]
Né debbo supporre di concepire l’infinito, non per mezzo di una vera idea, ma solo per mezzo della negazione di ciò che è finito, così come comprendo il riposo e le tenebre per mezzo della negazione del movimento e della luce: poiché, al contrario, vedo più manifestamente che si trova più realtà nella sostanza infinita che in quella finita, e quindi che ho, in certo modo, in me prima la nozione dell’infinito che del finito, cioè prima la nozione di Dio che di me stesso. Perché come potrei conoscere che dubito e che desidero, cioè che mi manca qualche cosa, e che non sono del tutto perfetto, se non avessi in me nessuna idea di un essere più perfetto del mio, dal cui paragone riconoscere i difetti della mia natura? […]
Questa stessa idea è anche sommamente chiara e distinta, poiché tutto ciò che il mio spirito concepisce chiaramente e distintamente di reale e di vero, e che contiene in sé una qualche perfezione, è racchiuso tutt’intero in quest’idea. E questo non cessa di essere vero, sebbene io non comprenda l’infinito, e benché ci sia un’infinità di cose che non posso comprendere, e forse neppur attingere in alcun modo col pensiero: perché è della natura dell’infinito che la mia natura, che è finita e limitata, non lo possa comprendere.
(Descartes, Meditazioni metafisiche, in Descartes, Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1967)
Amsterdam, 15 aprile 1630
Signore e Reverendo Padre,
la vostra lettera datata 14 marzo, che è quella per la quale, credo, siete in pena, mi è stata consegnata dieci o dodici giorni dopo; ma poiché me ne facevate sperare altre con il corriere successivo e non erano passati che otto giorni dacché vi avevo scritto, ho aspettato a rispondervi sino ad ora, dopo aver ricevuto le vostre ultime datate 4 aprile. […]
Nella vostra lettera del 14 marzo, però, mi proponevate una questione a proposito dell’infinito, che è tutto quello che trovo in più rispetto alla vostra ultima. Dite che se ci fosse una linea infinita, essa consterebbe di un numero infinito di piedi e tese [sono due antiche unità di misura della lunghezza, la seconda delle quali corrispondente all’apertura delle braccia], e che, di conseguenza, il numero infinito dei piedi sarebbe 6 volte più grande del numero delle tese. – Concedo tutto. – Dunque, quest’ultimo non è infinito. – Nego la conseguenza. – Ma un infinito non può essere più grande dell’altro. – Perché no? Che c’è di assurdo? Soprattutto se è più grande solamente in proporzione finita, come in questo caso dove la moltiplicazione per 6 è una proporzione finita, che non attiene per nulla all’infinito. E inoltre, quale ragione abbiamo di giudicare se un infinito è più o meno grande dell’altro, visto che cesserebbe di essere infinito, se potessimo comprenderlo. Conservatemi l’onore del vostro favore. Sono il Vostro molto umile e affezionato servitore,
Descartes
(dalla lettera di Descartes a M. Mersenne del 15 aprile 1630; in R. Descartes, I. Beeckman, M. Mersenne, Lettere (1619 – 1648), a cura di G. Belgioioso e J. R. Armogathe, Bompiani, Milano 2015)
SALV. (SALVIATI) Ricordiamoci che siamo tra gl’infiniti e gl’indivisibili, quelli incomprensibili dal nostro intelletto finito per la lor grandezza, e questi per la lor piccolezza. Con tutto ciò veggiamo che l’umano discorso non vuol rimanersi dall’aggirarsegli attorno; dal che pigliando io ancora qualche libertà, produrrei alcuna mia fantasticheria, se non concludente necessariamente, almeno, per la novità, apportatrice di qualche maraviglia. […]
Avrò qualche mio pensiero particolare, replicando prima quel che poco fa dissi, cioè che l’infinito è per sé solo da noi incomprensibile, come anco gl’indivisibili; or pensate quel che saranno congiunti insieme: e pur se vogliamo compor la linea di punti indivisibili, bisogna fargli infiniti; e così conviene apprender nel medesimo tempo l’infinito e l’indivisibile. Le cose che in più volte mi son passate per la mente in tal proposito, son molte, parte delle quali, e forse le più considerabili, potrebb’esser che, così improvisamente, non mi sovvenissero; ma nel progresso del ragionamento potrebbe accadere che, destando io a voi, ed in particolare al Sig. Simplicio [sostenitore dell’opinione dei filosofi aristotelici], obiezzioni e difficoltà, essi all’incontro mi facessero ricordar di quello che senza tale eccitamento restasse dormendo nella fantasia: e però [perciò] con la solita libertà sia lecito produrre in mezzo i nostri umani capricci, ché tali meritatamente possiamo nominargli in comparazione delle dottrine sopranaturali, sole vere e sicure determinatrici delle nostre controversie, e scorte inerranti [guide infallibili] ne i nostri oscuri e dubbii sentieri o più tosto labirinti.
Tra le prime istanze che si sogliono produrre contro a quelli che compongono il continuo d’indivisibili, suol essere quella che uno indivisibile aggiunto a un altro indivisibile non produce cosa divisibile perché, se ciò fusse, ne seguirebbe che anco l’indivisibile fusse divisibile; perché quando due indivisibili, come, per esempio, due punti, congiunti facessero una quantità, qual sarebbe una linea divisibile, molto più sarebbe tale una composta di tre, di cinque, di sette e di altre moltitudini dispari; le quali linee essendo poi segabili in due parti eguali, rendon segabile quell’indivisibile che nel mezzo era collocato. In questa ed altre obbiezzioni di questo genere si dà sodisfazione alla parte col dirgli, che non solamente due indivisibili, ma né dieci, né cento, né mille non compongono una grandezza divisibile e quanta [finita], ma sì bene infiniti.
SIMP. (SIMPLICIO) Qui nasce il dubbio, che mi pare insolubile: ed è, che sendo noi sicuri trovarsi linee una maggior dell’altra, tutta volta che amendue contenghino punti infiniti bisogna confessare trovarsi nel medesimo genere una cosa maggior dell’infinito, perché la infinità de i punti della linea maggiore eccederà l’infinità de i punti della minore. Ora questo darsi un infinito maggior dell’infinito mi pare un concetto da non poter esser capito in verun modo.
SALV. Queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agl’infiniti, dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed egualità non convenghino a gl’infiniti, de i quali non si può dire, uno esser maggiore o minore o eguale all’altro. Per prova di che già mi sovvenne un sì fatto discorso, il quale per più chiara esplicazione proporrò per interrogazioni al Sig. Simplicio, che ha mossa la difficoltà.
Io suppongo che voi benissimo sappiate quali sono i numeri quadrati, e quali i non quadrati.
SIMP. So benissimo che il numero quadrato è quello che nasce dalla moltiplicazione d’un altro numero in sé medesimo: e così il quattro, il nove, etc., son numeri quadrati, nascendo quello dal dua, e questo dal tre, in sé medesimo moltiplicati.
SALV. Benissimo: e sapete ancora, che sì come i prodotti si dimandano [si chiamano] quadrati, i producenti, cioè quelli che si multiplicano, si chiamano lati o radici; gli altri poi, che non nascono da numeri multiplicati in sé stessi, non son altrimenti quadrati. Onde se io dirò, i numeri tutti, comprendendo i quadrati e i non quadrati, esser più che i quadrati soli, dirò proposizione verissima: non è così?
SIMP. Non si può dir altrimenti.
SALV. Interrogando io di poi, quanti siano i numeri quadrati, si può con verità rispondere, loro esser tanti quante sono le proprie radici, avvenga che [dal momento che] ogni quadrato ha la sua radice, ogni radice il suo quadrato, né quadrato alcuno ha più d’una sola radice, né radice alcuna più d’un quadrato solo.
SIMP. Così sta.
SALV. Ma se io domanderò, quante siano le radici, non si può negare che elle non siano quante tutti i numeri, poiché non vi è numero alcuno che non sia radice di qualche quadrato; e stante questo, converrà dire che i numeri quadrati siano quanti tutti i numeri, poiché tanti sono quante le lor radici, e radici son tutti i numeri; e pur da principio dicemmo, tutti i numeri esser assai più che tutti i quadrati, essendo la maggior parte non quadrati. E pur tuttavia si va la moltitudine dei quadrati sempre con maggior proporzione diminuendo, quanto a maggior numeri si trapassa; perché sino a cento vi son dieci quadrati, che è quanto a dire la decima parte esser quadrati; in dieci mila solo la centesima parte son quadrati, in un millione solo la millesima: e pur nel numero infinito, se concepir lo potessimo, bisognerebbe dire, tanti esser quadrati, quanti tutti i numeri insieme.
SAGR. (SAGREDO) Che dunque si ha da determinare in questa occasione?
SALV. Io non veggo che ad altra decisione si possa venire, che a dire, infiniti essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, infinite le loro radici, né la moltitudine de’ quadrati esser minore di quella di tutti i numeri, né questa maggior di quella, ed in ultima conclusione, gli attributi di eguale maggiore e minore non aver luogo ne gl’infiniti, ma solo nelle quantità terminate. […]
Passo ora ad un’altra considerazione, ed è, che stante che la linea ed ogni continuo siano divisibili in sempre divisibili, non veggo come si possa sfuggire, la composizione essere di infiniti indivisibili, perché una divisione e subdivisione che si possa proseguir perpetuamente, suppone che le parti siano infinite, perché altramente la subdivisione sarebbe terminabile; e l’esser le parti infinite si tira in consequenza l’esser non quante, perché quanti infiniti fanno un’estensione infinita: e così abbiamo il continuo composto d’infiniti indivisibili.
SIMP. Ma se noi possiamo proseguir sempre la divisione in parti quante, che necessità abbiamo noi di dover, per tal rispetto, introdur le non quante?
SALV. L’istesso poter proseguir perpetuamente la divisione in parti quante, induce la necessità della composizione di infiniti non quanti. Imperò che, venendo più alle strette, io vi domando che resolutamente mi diciate, se le parti quante nel continuo, per vostro credere, son finite o infinite?
SIMP. Io vi rispondo, essere infinite e finite: infinite, in potenza; e finite, in atto; infinite in potenza, cioè innanzi alla [prima della] divisione; ma finite in atto, cioè dopo che son divise; perché le parti non s’intendono attualmente esser nel suo tutto, se non dopo esser divise o almeno segnate; altramente si dicono esservi in potenza.
SALV. Sì che una linea lunga, v. gr., [verbi gratia: per esempio] venti palmi non si dice contener venti linee di un palmo l’una attualmente, se non dopo la divisione in venti parti eguali; ma per avanti [prima] si dice contenerle solamente in potenza. Or sia come vi piace; e ditemi se, fatta l’attual divisione di tali parti, quel primo tutto cresce o diminuisce, o pur resta della medesima grandezza?
SIMP. Non cresce, né scema.
SALV. Così credo io ancora. Adunque le parti quante nel continuo, o vi siano in atto o vi siano in potenza, non fanno la sua quantità né maggiore né minore: ma chiara cosa è, che parti quante attualmente contenute nel lor tutto, se sono infinite, lo fanno di grandezza infinita: adunque [poiché ciò che accade in atto deve essere possibile anche in potenza] parti quante, benché in potenza solamente, infinite, non possono esser contenute se non in una grandezza infinita; adunque nella finita parti quante infinite, né in atto né in potenza possono esser contenute.
SAGR. Come dunque potrà esser vero che il continuo possa incessabilmente dividersi in parti capaci di sempre nuova divisione?
SALV. Par che quella distinzione d’atto e di potenza renda fattibile per un verso quello che per un altro sarebbe impossibile. Ma io vedrò d’aggiustar meglio queste partite col fare un altro computo; ed al quesito che domanda se le parti quante nel continuo terminato siano finite o infinite, risponderò tutto l’opposito di quel che rispose dianzi il Sig. Simplicio, cioè non esser né finite né infinite.
SIMP. Ciò non arei [avrei] saputo mai risponder io, non pensando che si trovasse termine alcuno mezzano tra ‘l finito e l’infinito, sì che la divisione o distinzione che pone, una cosa o esser finita o infinita, fusse manchevole e difettosa.
SALV. A me par ch’ella sia. E parlando delle quantità discrete, parmi che tra le finite e l’infinite ci sia un terzo medio termine, che è il rispondere ad ogni segnato numero; sì che, domandato, nel presente proposito, se le parti quante nel continuo siano finite o infinite, la più congrua risposta sia il dire, non esser né finite né infinite, ma tante che rispondono ad ogni segnato numero: per il che fare è necessario che elle non siano comprese dentro a un limitato numero, perché non risponderebbono ad un maggiore; ma né anco è necessario che elle siano infinite, perché niuno assegnato numero è infinito: e così ad arbitrio del domandante una proposta linea gliela potremo assegnare segata in certo parti quante, e in mille e in cento mila, conforme a qual numero più gli piacerà; ma divisa in infinite, questo non già. Concedo dunque a i Signori filosofi che il continuo contiene quante parti quante piace loro, e gli ammetto che le contenga in atto o in potenza, a lor gusto e beneplacito; ma gli soggiungo poi, che nel modo che in una linea di dieci canne si contengono dieci linee d’una canna l’una, e quaranta d’un braccio l’una, e ottanta di mezzo braccio etc., così contiene ella punti infiniti: chiamateli poi in atto o in potenza, come più vi piace, ché io, Sig. Simplicio, in questo particolare mi rimetto al vostro arbitrio e giudizio.
(G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze, Ed. Naz. VIII, p. 73; pp. 76 – 81)
Rouen, 29 febbraio 1940
Mia cara sorella,
ho ricevuto le tue lettere, quella che era arrivata a Le Havre e quella che mi hai mandato qui. […]
Ciò che rende oltremodo originale la matematica greca è forse il fatto che non esiste l’approssimazione: questo ha ucciso il numero a vantaggio del lógos (è qui tutto il dramma della scoperta degli irrazionali) e ha mandato in rovina il pitagorismo per approdare a Platone e a Euclide. Naturalmente il lógos non è altro che il nostro “numero reale”. Fino ai Greci non potevano esserci incommensurabili. Avendo scoperto che il numero (ciò che chiamavano numero: vale a dire il numero intero) non era sufficiente a esprimere i rapporti fra grandezze, occorreva evidentemente ricominciare tutto da capo, dato che non si era più sicuri di niente. In algebra il metodo assiomatico è completamente inutile, giacché le proprietà elementari dell’addizione e della moltiplicazione sono troppo banali perché si senta il bisogno di esprimerle, ma in geometria non è più così. […]
Rimango il tuo affezionato fratello,
André
Parigi, marzo 1940?
Mio caro fratello,
[…] Certo, c’è stato un dramma degli incommensurabili, e di portata immensa. La divulgazione di questa scoperta ha gettato sulla nozione di verità un discredito che dura tuttora; ha fatto nascere, o quanto meno ha contribuito a far nascere, l’idea che si possano dimostrare altrettanto bene due tesi contraddittorie; i sofisti hanno diffuso fra le masse un simile punto di vista, nonché un sapere di qualità inferiore, teso unicamente verso la conquista della potenza; ne sono derivati, dalla fine del V secolo, la demagogia e l’imperialismo che ad essa è strettamente legato, le cui conseguenze hanno distrutto la civiltà ellenica; a causa di questo processo (al quale hanno certo contribuito altri fattori, segnatamente le guerre contro i Medi), le armi romane hanno potuto infine uccidere la Grecia, senza alcuna possibilità di una sua risurrezione. Ne concludo che gli dèi hanno avuto ragione di far perire in un naufragio il pitagorico colpevole di aver divulgato la scoperta degli incommensurabili.
Non credo tuttavia che fra i geometri e i filosofi vi sia stato un dramma. Il pitagorismo è stato mandato in rovina da tutt’altro (nella misura in cui lo è stato), e cioè dal massiccio massacro dei pitagorici in Magna Grecia. Del resto il pentagono stellato, che rappresenta un rapporto di incommensurabili (divisione di un segmento in estrema e media ragione), fu uno dei simboli dei pitagorici. Ma Archita (uno dei sopravvissuti) fu un grande geometra, e fu il maestro di Eudosso, autore della teoria dei numeri reali […]
Possiamo chiederci perché i Greci si siano tanto applicati allo studio della proporzione. Si tratta senz’altro di una preoccupazione religiosa, e di conseguenza (dato che si tratta della Grecia) in parte estetica. Il legame fra le preoccupazioni matematiche da un lato e quelle filosofico – religiose dall’altro, legame la cui esistenza è storicamente attestata per l’epoca di Pitagora, risale certamente a molto tempo prima. […] Penso dunque che la nozione di proporzione sia stata fin da un’Antichità abbastanza remota oggetto di una meditazione che costituiva uno dei procedimenti di purificazione dell’anima, forse il procedimento principale. È fuor di dubbio che questa nozione era al centro della dell’estetica, della geometria, della filosofia dei Greci. […] La purezza dell’anima era il loro unico assillo; “imitare Dio” ne era il segreto; lo studio della matematica aiutava a imitare Dio in quanto in quanto consideravano l’universo come sottomesso alle leggi matematiche, il che faceva del geometra un imitatore del legislatore supremo. […]
Il fatto è che per i Greci la matematica era veramente un’arte. Il suo scopo era il medesimo di quello della loro arte, ovvero rendere sensibile un’affinità fra la mente umana e l’universo, fare apparire il mondo come “la città di tutti gli esseri dotati di ragione” [La citazione è da Marco Aurelio, A se stesso, IV, 4]. […]
Fraternamente,
Simone
Rouen, 28 marzo 1940
Mia cara sorella,
devo fare alcune osservazioni sulla teoria della matematica greca; in parte più tecniche, in parte di ordine generale. […]
Torniamo ai Greci. Come pensi che abbiano scoperto l’incommensurabile? Mi pare di ricordare che al riguardo non si abbia nessun dato certo, e di aver visto da qualche parte un suggerimento ingegnoso, con una discesa infinita in cui la cosa si vedeva su un quadrato e la sua diagonale [si veda il sottostante triangolo OBA, rettangolo in B, in cui BC è l’altezza relativa all’ipotenusa] (corrispondente numericamente a questo: si ha = ; ebbene [La proporzione che segue nel testo esprime l’enunciato del primo del teorema di Euclide applicato al triangolo rettangolo OBA, in cui a = OA, b = OB, c = OC: tale uguaglianza di rapporti è una interpretazione geometrica dell’uguaglianza numerica 2 +1/1 = 1/(√2 – 1)], se a : b = b : c, e se a, b, c hanno una misura comune, allora lo stesso vale per tutte le lunghezze ottenute continuando la progressione verso il basso, il che è assurdo, giacché le lunghezze OB’, OC’, OB’’, OC’’, ecc. diventano piccole quanto si vuole). […]
Da quel che mi sembra, Eudosso deve essere stato il primo matematico nella storia greca. Hai un bel dire che è un seguace del pitagorismo, ma non posso pensare che questo importi molto. […] D’altro canto trovo molto seducenti, e nel contempo abbastanza verosimili, le tue idee sul ruolo della proporzione nella storia del pensiero greco. Questo conferma un po’, mi sembra, che vi è stato un dramma nella vicenda degli incommensurabili. La proporzione è ciò che si nomina; il fatto che vi siano rapporti che non sono nominabili (e nominabile è un rapporto fra numeri interi), che vi siano stati dei lógoi álogoi, l’espressione stessa è tanto sconvolgente che non posso credere che […] un fatto così straordinario abbia potuto essere preso per una semplice scoperta scientifica […]
Fraternamente,
A.
[Parigi, fine marzo – aprile 1940]
Mio caro fratello,
la mia idea, sulla scoperta degli incommensurabili, è che i Greci abbiano cominciato con lo scoprire non già che la diagonale del quadrato è incommensurabile, ma che fra due numeri di cui uno è il doppio dell’altro non c’è media proporzionale. Come indizi storici, conosco solo due testi. Uno, di Platone, nel Menone, dove Socrate, per provare che ogni anima – compresa quella degli schiavi – proviene dal “cielo intelligibile”, interroga uno schiavo sulla duplicazione del quadrato, e gli fa trovare (con domande ben ponderate) che il doppio di un quadrato si ottiene prendendo la diagonale come lato. Nient’altro; ma la scelta del problema (duplicazione del quadrato) suggerisce che sia legato a una conoscenza che attesta in modo eminente l’origine divina dell’intelligenza umana; e quale sarebbe, questa conoscenza, se non quella degli incommensurabili? L’altro testo è di Aristotele; dice che l’incommensurabilità della diagonale si dimostra per assurdo: perché se la diagonale fosse commensurabile, il pari sarebbe uguale al dispari. Il numero pari e nel contempo dispari è chiaramente quello che misura la diagonale. Siccome i pitagorici (autori della scoperta) davano il nome di aritmetica allo studio del pari e del dispari, non è affatto inverosimile, anzi, che quella dimostrazione sia loro. Cercando una media proporzionale fra un numero e il suo doppio è possibile che si siano chiesti, prima di trovarla, se fosse pari o dispari; e abbiano visto che necessariamente è al tempo stesso l’uno e l’altro; e ne abbiano concluso che non esiste. […]
Quando dico che non c’è stato dramma degli incommensurabili, non voglio dire che i Greci non siano stati sconvolti dall’emozione per quella scoperta. So che lo sono stati; se ne vede traccia dappertutto. […] Ma penso che quella emozione sia stata gioia, e non angoscia. Come puoi vedere da quel che precede, penso che siano stati non già stupiti che vi fossero rapporti non definibili dai numeri, quanto intensamente felici nel vedere che anche ciò che non si definisce tramite numeri continua a essere un rapporto. […] Gli uomini di second’ordine probabilmente sono rimasti costernati; gli altri sicuramente si sono estasiati […] Ad ogni modo penso che gli incommensurabili abbiano dato ai Greci l’idea d’intelligibile puro, ossia, detto in maniera più precisa, che abbiano loro procurato verità che esigono, perché le si colga, una separazione fra intelligenza e uso dei sensi più netta di quella richiesta dalle proposizioni relative ai numeri; per questo sono sembrati loro un dono degli dèi. […]
Se Pitagora, come suppongo, ha costruito un triangolo rettangolo con due triangoli simili per formare delle medie proporzionali [Il triangolo rettangolo OBA disegnato nella lettera del 28 marzo 1940 si può ottenere unendo i triangoli simili OBC e BCA, aventi il lato BC in comune. Un caso particolare di questa costruzione è quello in cui OA = 2 OC]; se ha così ottenuto una media fra un numero e il suo doppio, sapendo già che non avrebbe potuto ottenerla in numeri; se ha concepito il rapporto fra quella media e quel numero come un rapporto esatto, cosa che sembrava indicare che il potere dell’intelligenza si estende a tutto quello che non si calcola – allora si capisce benissimo il tono di esaltazione estatica che caratterizza qualsiasi evocazione della geometria, e segnatamente degli incommensurabili. Altrimenti non si capirebbe.
Trovare nei numeri leggi che permettano di definire in anticipo i caratteri (pari, dispari, quadrato, ecc.) di numeri che non abbiamo formato noi – trovare, laddove il numero non può fornire alcun aiuto, rapporti non numerici esatti come i rapporti fra numeri – ecco due cose inebrianti, ma la seconda molto di più.
Penso quindi che la nozione di proporzione, quale compare nel quinto libro di Euclide, sia di molto anteriore a Eudosso. (E’ quello che volevo suggerire segnalando la matrice pitagorica di Eudosso). La filosofia di Platone è incomprensibile se non si ammette che egli abbia avuto questa nozione. A rigore, avrebbe potuto mutuarla da Eudosso, suo contemporaneo – ma nessuna tradizione, né, credo, nessuna internal evidence indica che abbia ricevuto una rivelazione da un contemporaneo. Avrebbe forse messo in bocca a Socrate l’allusione alla diagonale del quadrato, che ti ho ricordato, se al tempo di Socrate fosse stata oggetto di scandalo e segno di un fallimento? […]
Nelle cose visibili, la proporzione permette al pensiero di cogliere in un sol colpo una diversità complessa, dove, senza il soccorso della proporzione, si perderebbe. L’anima umana è esiliata nel tempo e nello spazio, che la privano della sua unità; tutti i procedimenti di purificazione valgono a liberarla dagli effetti del tempo, in modo che giunga a sentirsi quasi a casa propria nel luogo stesso del suo esilio. Il solo fatto di poter cogliere in un sol colpo una molteplicità di oggetti, di poter concepire in un sol colpo una molteplicità di punti di vista su uno stesso oggetto rende l’anima felice; ma bisogna che la regolarità e la diversità siano combinate in modo che il pensiero sia incessantemente sul punto di perdersi nella diversità e incessantemente salvato dalla regolarità. Ma gli oggetti fabbricati a questo scopo non bastano; il pensiero aspira a concepire il mondo stesso come analogo a un’opera d’arte, all’architettura, alla danza, alla musica. A questo scopo bisogna trovarvi la regolarità nella diversità, vale a dire delle proporzioni. […]
Agli occhi dei Greci la misura, l’equilibrio, la proporzione e l’armonia costituivano il principio stesso della salvezza dell’anima, perché i desideri hanno come oggetto l’illimitato. Concepire l’universo come un equilibrio, un’armonia, è come farne uno specchio della salvezza. Anche nei rapporti fra gli esseri umani il bene consiste nell’eliminare l’illimitato; in questo risiede la giustizia (che può allora definirsi solo mediante l’uguaglianza). Lo stesso vale nei rapporti di un uomo con se stesso. Sulla “uguaglianza geometrica” come suprema legge dell’universo e al tempo stesso condizione per la salvezza dell’anima c’è un passo del Gorgia [Platone, Gorgia, 507 e – 508 a [“A questo scopo [l’uomo] deve volgere tutte le energie sue e quelle della Città: che giustizia e temperanza siano presenti in chi vuole essere felice. In questo modo egli deve comportarsi e non deve permettere che le sue passioni si sfrenino, per poi cercare di soddisfarle – male interminabile! – vivendo, così, una vita da ladro. Infatti, quest’uomo non potrebbe essere amico né ad altro uomo né a un dio, perché non ha capacità di comunanza con essi, e dove non c’è comunanza non ci può essere neppure amicizia. E i sapienti dicono, o Callicle, che cielo, terra, dei e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza e dalla giustizia: ed è proprio per tale ragione, o amico, che essi chiamano questo intero universo “cosmo”, ordine, e non, invece, disordine o dissolutezza. Ora, mi sembra che tu non ponga mente a queste cose, pur essendo tanto sapiente, e mi sembra che ti sia sfuggito che l’uguaglianza geometrica ha un grande potere fra gli dei e fra gli uomini. Tu credi, invece, che si debba perseguire l’eccesso: infatti trascuri la geometria!”] [trad. di G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2001]]. […]
Fraternamente,
Simone
(Simone Weil – André Weil, L’arte della matematica, Adelphi, Milano 2018, pp. 17; 20 – 21; 30; 36 – 40; 67; 70; 72 – 73; 76 – 78; 80; 105 – 106; 94 – 95. Simone Weil non rispose alla lettera del fratello del 29 marzo 1940, ma redasse due abbozzi di risposta, di cui sono qui riportati alcuni estratti).
[Gli insetti che] nascono dall’accoppiamento degli animali dello stesso genere, prolificano anch’essi secondo il genere, quelli invece che nascono non da animali ma dalla materia putrefatta [secondo la teoria della generazione spontanea] generano sì, ma prole di genere diverso che non è né femmina né maschio. Così dunque è una parte degli insetti. Il che peraltro accade a ragione. Se infatti dall’accoppiamento di animali non nati da animali nascesse prole e questa fosse simile ai genitori, la similarità dovrebbe riguardare fin dal principio anche il modo della nascita dei genitori. A ragione riteniamo questo, perché così succede manifestamente per tutti gli altri animali. Se invece la prole fosse dissimile ma capace di accoppiarsi, da essa daccapo si produrrebbe una natura diversa, e poi un’altra ancora diversa e così via all’infinito. Ma la natura evita l’infinito, perché l’infinito è incompiuto e la natura ricerca sempre un compimento.
(Aristotele, La riproduzione degli animali, I, 715 b, traduzione e cura di D. Lanza, UTET, Torino 1971)
È chiaro che, se l’infinito non esiste assolutamente, si hanno molte conseguenze impossibili. Il tempo avrà un inizio e una fine, le grandezze [geometriche] non saranno divisibili in grandezze e il numero non sarà infinito. Ma dal momento che, in base alle distinzioni precedenti, non sembra ammissibile né una cosa né l’altra, occorre un arbitro: evidentemente in un senso l’infinito è e in un altro non è. Si dice che l’essere è in potenza o in atto e l’infinito è sia per addizione che per divisione. Ma la grandezza in quanto è in atto non è infinita, come si è detto, ma lo è per divisione, perché non è difficile confutare la teoria delle linee indivisibili. Rimane, dunque, che l’infinito è in potenza. Ma non bisogna assumere “ciò che è in potenza” nel senso in cui, per esempio, si dice che, se questo materiale è potenzialmente una statua, allora sarà una statua. In questo senso sarebbe infinito ciò che sarà in atto. Ma poiché l’essere si dice in molti modi, come si dice “il giorno è”, “la gara è”, in quanto diventano sempre altro e poi altro, così è l’infinito. E infatti anche a questi esempi si applica l’essere in potenza e in atto, perché i giochi olimpici sono sia in quanto possono aver luogo sia in quanto hanno luogo. E’ chiaro che l’infinito ha sensi diversi, se applicato al tempo, o alle generazioni umane o alla divisione delle grandezze. In generale, infatti, l’infinito è così, nel senso che è assunto sempre diverso, e ciò che è assunto è sempre finito, ma sempre diverso e poi ancora diverso. … Ma nelle grandezze ciò che è assunto permane, mentre nel tempo e nelle generazioni umane scompare, ma in modo da non lasciare nulla.
(Aristotele, Fisica, III 6, 206 a, 206 b 1 – 4; in G. Cambiano, Filosofia e scienza nel mondo antico, Loescher, Torino 1976)
Infinita è dunque quella grandezza della quale, rispetto alla quantità data, è possibile continuare a prendere una parte sempre nuova. Mentre ciò al di fuori del quale non c’è nulla, questo è ciò che è compiuto [téleion] e intero. In questo modo, infatti, viene definito l’intero: ciò che non manca di nulla; ad esempio, un uomo è un intero, oppure un forziere. E ciò è vero tanto nelle cose particolari, quanto anche in ciò che è considerato intero in senso generale: ad esempio, l’intero come ciò rispetto al quale nulla esiste al di fuori. Mentre ciò al di fuori del quale si dà qualcosa, manca di qualcosa e non è intero, per quanto infima sia la parte che gli manca. “Intero” e “compiuto” sono, o del tutto identici, o pressoché della stessa natura. Ma niente è compiuto se non ha un termine [télos], mentre il termine è limite.
(Aristotele, Fisica, III 6, 207 a 7 – 15, traduzione e cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995)
R. Radice, in Fisica, Bompiani, Milano 2011, qui traduce téleion con “perfetto” anziché “compiuto” e télos con “fine” (inteso come sinonimo di “scopo”) anziché “termine”. La sua traduzione dell’ultimo periodo dello stesso brano aristotelico è: Ma niente è perfetto, se non quello che ha un fine, e il fine è il limite.
Questo discorso non intende affatto sottrarre ai matematici le loro indagini, per il fatto che esso nega che l’infinito sia tale da essere in atto percorribile in direzione dell’accrescimento. Essi non hanno infatti bisogno in questo momento dell’infinito (infatti non ne fanno uso), ma soltanto di una quantità finita grande quanto essi vogliono e che, nello stesso rapporto con il quale è divisa la grandezza massima, con questo stesso rapporto possa essere divisa qualsiasi altra grandezza, sicché in relazione alle loro dimostrazioni non importerà affatto che l’infinito esista nelle grandezze esistenti.
(Aristotele, Fisica, III 7, 207 b 27 – 34; in G. Cambiano, Filosofia e scienza nel mondo antico, Loescher, Torino 1976)
E’ assurdo prestare credito al pensiero, perché l’eccesso e il difetto non hanno luogo nella cosa, ma nel pensiero. Infatti ciascuno di noi si potrebbe pensare molte volte se stesso, accrescendolo all’infinito. Ma che esso esista fuori della stessa grandezza che abbiamo noi non è per il fatto che lo si pensi, ma per il fatto che esiste. Il pensarlo, invece, è accidentale. Il tempo, il movimento e il pensiero sono infiniti [Secondo Aristotele, l’infinità del movimento deriva dalla continuità dello spazio in cui esso si compie, e quindi dalla infinita divisibilità di quest’ultimo] ma senza che persista ciò che è assunto. La grandezza, invece, non è infinita né per sottrazione né per aumento effettuati nel pensiero.
(Aristotele, Fisica, III 8, 206 a 14 – 22; in G. Cambiano, Filosofia e scienza nel mondo antico, Loescher, Torino 1976)