Schede e approfondimenti
Beni comuni nelle scienze economiche e nell’accezione giuridica
Recentemente il concetto di “bene comune” è diventato molto popolare. Molto spesso, però, la sua definizione è confusa e ambigua.In Italia tende a prevalere una interpretazione giuridica, ma un grande contributo potrebbe venire dalle analisi che in ambito economico sono state condotte dal premio Nobel Elinor Ostrom.
Beni comuni e diritti di proprietà. Per una critica della concezione giuridica
Articolo tratto da Micromega (2015) di Enrico Grazzini
Esistono diverse interpretazioni relative ai “beni comuni”. In effetti questa dizione è ambigua e rappresenta un ombrello sotto il quale sono ospitate diverse connotazioni e significati, alcuni vicini e altre invece distanti o addirittura contrastanti tra loro. Prendiamo in esame due distinti approcci ai beni comuni: quello economico, e quello giuridico. Cercheremo di definire che cosa le scienze economiche e sociali intendono per “bene comune” e come invece il significato di common (bene comune) cambia in un’accezione giuridica.
La questione definitoria non è sofistica o frivola, ma riguarda la precisione scientifica e ha delle conseguenze politiche, e quindi delle importanti conseguenze pratiche. Come vedremo alcune definizioni divergono tra loro: in particolare la definizione di bene comune della Ostrom diverge dai significati che invece danno al bene comune buona parte dei filosofi e gran parte dei giuristi – in particolare in Italia, dove la nozione di bene comune è stata introdotta e trattata principalmente dagli studiosi delle leggi, mentre non è ancora molto accettata dagli economisti.
La confusione definitoria è tanto più grave dal momento che, per dirla con le parole di Stefano Rodotà, l’autorevole giurista che tra i primi ha avuto il merito di introdurre la questione dei beni comuni in Italia, “se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza” [1].
I Commons come risorse condivise
Per Elinor Ostrom, premio Nobel dell’economia, e per gli economisti e gli studiosi sociali dei beni comuni a livello internazionale, i commons sono risorse materiali o immateriali condivise, ovvero risorse che tendono a essere non esclusive e non rivali (un bene è “rivale” quando l’uso da parte di un soggetto impedisce l’uso da parte di un altro soggetto), e che quindi sono fruite (o prodotte) tendenzialmente da comunità più o meno ampie.
Occorre sottolineare che la definizione economica è nettamente distinta da quella morale e giuridica. Infatti non è detto che i beni comuni siano necessariamente anche un bene in senso morale; e non è detto neppure che costituiscano un diritto primario degli individui e dei cittadini. Un pascolo per esempio può essere un bene comune ma non è né buono né cattivo, e non è neppure un diritto primario. L’inquinamento è un male comune che però sul piano della teoria economica è anche un “bene comune”, ovvero un fenomeno condiviso, non esclusivo e non rivale che riguarda e colpisce tutti, anche se in maniera e misura diversa.
Beni di merito e beni comuni
La teoria economica sui commons è quindi agnostica sul piano morale e non classifica i beni neppure in base a criteri di diritto e di legge. Per Ostrom i beni comuni non costituiscono necessariamente un diritto dei cittadini. I beni comuni si distinguono in questo senso dai beni di merito, che – come l’acqua e il codice genetico – sono indispensabili per la sopravvivenza umana o hanno un alto valore morale o sociale, e che sono incommensurabili rispetto ai criteri economici di mercato, e che quindi devono essere giuridicamente salvaguardati e assicurati per tutti gli esseri umani. I beni di merito possono però non essere dei commons: per esempio il diritto alla casa non presuppone il diritto o il dovere di condividere l’abitazione.
L’acqua, che un referendum ha sancito in Italia come un bene comune, è certamente un diritto per tutti gli uomini, ma (come vedremo) sul piano della teoria dei commons non è sempre e necessariamente un bene comune, in quanto è una risorsa che può anche essere facilmente resa esclusiva, ed è anche una risorsa rivale: se viene consumata da alcuni soggetti non viene consumata da altri. L’acqua può anche essere di fatto e di diritto una risorsa privata: ma certamente occorre invece reclamare che sia gestita da soggetti pubblici affinché a tutti sia garantito il diritto di accesso, perché è un bene di merito.
Beni comuni: proprietà funzionali e riconoscimento giuridico
A differenza dei beni di merito, la caratteristica specifica e peculiare (e positiva) dei beni comuni non è morale e non implica necessariamente giudizi di valore: consiste invece nel fatto che è difficile escludere qualcuno dall’utilizzarli, che sono difficilmente recintabili, e che sono anche tendenzialmente non rivali – cioè possono essere fruiti contemporaneamente da più persone o da comunità di utenti (come l’ambiente, l’aria e l’acqua, i pascoli [2]) o da comunità di produttori (come nel caso delle scienze, di Internet, di Wikipedia, dell’informazione e di altri artefatti [3]).
Quindi la definizione di common – che è quella della Ostrom e quella discussa dagli scienziati a livello internazionale – è oggettiva, cioè relativa innanzitutto alle caratteristiche strutturali e funzionali intrinseche di certi beni rispetto ad altri; ma occorre tenere conto che sul piano soggettivo un bene comune può essere riconosciuto o non riconosciuto come tale dalla società. Il riconoscimento formale e giuridico dipende non dalle caratteristiche dei beni in questione ma dalle convenzioni sociali e dalle istituzioni: infatti un bene comune diventa giuridicamente comune solo se una comunità si impegna a gestirlo come tale, cioè in comune, e solo se gli stati (e le corporation) accordano alla comunità il pieno diritto di gestirlo o cogestirlo.
La distinzione tra il piano oggettivo e soggettivo/giuridico è fondamentale: solo così si può comprendere come dei beni oggettivamente comuni, tendenzialmente non esclusivi e non rivali – come per esempio le conoscenze e le reti – possano essere beni privati o dello stato. Facciamo degli esempi per comprenderci meglio.
Un volume cartaceo, inteso come insieme di fogli di carta rilegati, non è un bene comune, ma le conoscenze contenute nel libro non sono esclusive e non sono rivali, e sono facilmente trasferibili e condivisibili, e quindi sono oggettivamente un bene comune. Se queste conoscenze appartengono al dominio pubblico diventano anche normativamente dei beni comuni accessibili a tutti; se invece sono sottoposte a restrizioni di esclusività grazie alle leggi sulla proprietà intellettuale, allora diventano “proprietà privata”.
Occorre quindi distinguere il piano oggettivo, relativo alle caratteristiche intrinseche degli oggetti, da quello soggettivo, relativo ai regimi normativi che regolano i beni comuni: infatti questi possono essere gestiti dai privati, dallo stato o dalle comunità, in relazione alla storia e ai rapporti di forza materiali e culturali tra i diversi soggetti storici. Solo quando i beni comuni sono effettivamente gestiti dalle comunità di riferimento e riconosciuti dallo stato come tali diventano commons anche sul piano soggettivo.
Continuiamo con gli esempi. Tutte le reti sono oggettivamente delle risorse comuni, ovvero aumentano la loro utilità (e il loro valore) più sono condivise dal maggiore numero di utenti: tuttavia solo il fatto che il protocollo Internet non è brevettato e che Internet è gestita in maniera condiviso e aperto fa diventare giuridicamente e di fatto questa rete un bene comune; mentre le altre reti di comunicazione, pur essendo oggettivamente, almeno per un certo grado, beni condivisi, sono gestite da soggetti privati, sono sottoposte a leggi di proprietà intellettuale e a standard tecnici proprietari, e quindi tendono a escludere alcuni utenti (per esempio chi non paga). Queste reti diventano private, pur essendo oggettivamente beni comuni.
Le comunità per la gestione efficace dei commons
E’ noto che i beni comuni sono invece spesso beni privati o dello stato. Ma hanno una specificità eccezionale: possono essere gestiti in maniera più efficiente, innovativa e sostenibile dalle comunità di riferimento. E, reciprocamente, se i commons non sono gestiti dalle comunità di riferimento ma dai privati o dallo stato – cioè in favore di elite privilegiate, private o pubbliche – in generale vengono gestiti in maniera non ottimale – cioè con sprechi e inefficienze – e in modo non sostenibile nel tempo [4].
Questa è la vera grande scoperta scientifica – e da lei empiricamente verificata sul campo – di Elinor Ostrom: molti altri studiosi avevano infatti evidenziato che esistevano proprietà e gestioni comuni dei beni condivisi, ma Ostrom ha aggiunto qualcosa di fondamentale: non è vero che se i commons sono gestiti dalle comunità allora vengono devastati, e che si verifica necessariamente la “tragedia dei beni comuni” come sosteneva la teoria dominante di Garrett Hardin [5]. Non è vero che per gestire i beni comuni ed evitare la tragedia del sovraconsumo occorre privatizzarli o statalizzarli, cioè imporre delle regole esogene, come suggeriva Hardin. Anzi è vero il contrario: le foreste gestite (o cogestite) dalle comunità locali sono in generale (non sempre) gestite meglio e in maniera più sostenibile di quelle sotto il dominio dello stato [6]. Internet deve il suo grande successo al fatto che è gestita dalle comunità di scienziati, ricercatori, informatici, utenti, i quali impongono che i suoi standard non siano brevettati e siano aperti e gratuiti.
Wikipedia è la principale enciclopedia al mondo ed è gestita in maniera aperta dalle comunità di utenti e da una fondazione che li rappresenta. Il software libero e Open Source è gestito dalle comunità di utenti; e gli esempi di successo dell’autogestione nel campo scientifico, culturale e dei beni ambientali potrebbero continuare. La scoperta della Ostrom è che le comunità possono consolidare rapporti di fiducia reciproca e autoregolarsi grazie a a interessi comuni, a pratiche comuni, alla comunicazione costante, a sperimentazioni per prova ed errori, e possono sviluppare competenze elevate. Il vantaggio rispetto ai privati e allo stato è che le comunità hanno più interesse a conservare e sviluppare i beni comuni in quanto per loro i commons possono costituire risorse essenziali, e perché ne hanno esperienza diretta, magari da generazioni, e quindi in generale (anche se ovviamente non sempre) hanno la migliore competenza per gestirli in maniera sostenibile e concordata.
Il messaggio della Ostrom è contemporaneamente economico e politico: la gestione diretta – e quindi tendenzialmente democratica – dei commons da parte delle comunità è, in generale e a certe condizioni, più efficiente e sostenibile della gestione eterodiretta da parte privata o pubblica.
Inoltre – e questo è l’altro fattore di novità rivoluzionaria rispetto alle teorie dominanti – la gestione comunitaria dei beni comuni comporta un modo di produzione cooperativo e non competitivo [7]. Il messaggio della Ostrom deriva la sua enorme e dirompente forza proprio da questi due fattori: la gestione comunitaria dei commons è più efficiente di quella privata e statale grazie a un modo di produzione autoregolato e fondato sostanzialmente sulla cooperazione, sulla partecipazione, e su gerarchie concordate e non autoritarie (come nel software Open Source).
Il messaggio politico dovrebbe essere chiaro: una politica accorta e sostenibile, di difesa e sviluppo dei beni comuni, deve incoraggiare la gestione comunitaria dei commons riconoscendo alle comunità di riferimento i diritti giuridici di proprietà e/o di gestione, o di cogestione. E’ su questi elementi forti che le teorie della Ostrom si collegano in qualche modo alle teorie di Marx, che voleva che i mezzi di produzione diventassero comuni in quanto frutto della cooperazione sociale.
I quattro tipi di beni
In base ai due criteri di esclusività e di rivalità, Ostrom categorizza quattro tipologie di beni: quelli privati; quelli di club; quelli comuni e quelli pubblici [8].
I quattro tipi di beni: privati, di club, comuni, e pubblici
Occorre tuttavia premettere un’avvertenza: queste quattro tipologie sono puramente ideali e hanno in realtà confini mobili, e tuttavia sono utili ed esplicative perché ci permettono di capire le differenze tra i diversi tipi di beni e di regimi proprietari.
Si può allora dimostrare che alcuni beni, in particolare i beni sia esclusivi che rivali, come il cibo, le automobili e i personal computer, si prestano facilmente a diventare proprietà privata (anche se i confini, come detto prima, sono incerti: per esempio i Pc e le autovetture si possono in alcuni casi condividere).
Altri beni – i cosiddetti beni di club – possono essere esclusivi ma sono però anche condivisi da particolari comunità “chiuse”: per esempio gli asili nido o le biblioteche comunali sono condivisi dagli abitanti di determinate comunità, e tutti gli altri sono esclusi.
Alcuni beni comuni (common-pool resources) hanno invece la “disgrazia” di essere poco esclusivi, cioè di essere facilmente contendibili, e contemporaneamente di essere scarsi e rivali: per esempio i giacimenti minerari e fossili. Per il possesso di questi beni si possono allora scatenare duri conflitti.
I beni pubblici sono quelli da cui è difficile escludere qualcuno, ma che (fortunatamente) non sono rivali o limitati, come, per esempio, nel campo dei beni fisici, l’aria e l’acqua del mare. Anche in questo caso però i confini sono mobili: per esempio alcuni beni pubblici che non erano scarsi lo stanno diventando, o lo sono già diventati, come lo strato di ozono e l’aria pulita.
Beni pubblici, economia della conoscenza e dell’abbondanza
I beni pubblici “più puri”, quelli che più difficilmente possono diventare esclusivi e rivali, sono immateriali, come il linguaggio, le informazioni e le conoscenze, il protocollo Internet di comunicazione [9]. E’ difficile escludere qualcuno dal teorema di Pitagora; inoltre chi insegna il teorema del matematico greco lo trasmette ai suoi alunni ma non se ne priva. Già Thomas Jefferson, uno dei padri della Costituzione americana, nella seconda metà del settecento spiegò che per sua natura la conoscenza è un bene sociale che si diffonde come il fuoco e che si propaga senza consumarsi, e che le idee non possono e non devono essere di proprietà esclusiva di qualcuno – a parte eccezioni temporanee e parziali – e costituiscono la base del progresso dell’umanità.
L’economia immateriale è quella più densa di beni pubblici, come le informazioni e le conoscenze, come il linguaggio, che sono il frutto della produzione intellettuale sociale (general intellect). Ovviamente anche le conoscenze possono essere ridotte a proprietà privata o statale, ma è, per così dire, innaturale e costoso, e soprattutto inefficiente ridurle a beni esclusivi e limitare la loro diffusione. La condivisione dei beni immateriali, come le conoscenze e le informazioni, ha infatti una particolarità: genera la moltiplicazione delle risorse di partenza. La conoscenza è sia un prodotto che una materia prima, e quindi è una risorsa che può essere arricchita all’infinito se circola senza vincoli e barriere. L’economia della conoscenza è perciò un’economia dell’abbondanza che si contrappone all’economia materiale della scarsità. Più gli scienziati e i ricercatori si scambiano conoscenze più è facile che si creino nuove conoscenze e innovazioni e scoperte.
Dal nostro punto di vista occorre aggiungere che nella knowledge economy si capovolgono allora radicalmente tutti i parametri dell’analisi economica classica fondata sul mercato come sistema ottimale per allocare beni rivali e scarsi. L’economia della conoscenza è infatti un’economia dai rendimenti crescenti. Si rovescia il paradigma centrale del capitalismo, fondato sulla proprietà esclusiva e sulla scarsità (o rivalità) delle risorse che si consumano con l’uso, come i beni materiali. I tre pilastri del capitalismo – proprietà privata, competizione e mercato – non caratterizzano anche questo nuovo tipo di economia emergente, che al contrario si fonda sulle comunità (e non sulla proprietà privata o su quella statale), sulla cooperazione, e sullo scambio reciproco extra mercato. Paradossalmente sembra che il capitalismo possa essere superato proprio grazie al settore più avanzato che ha generato, quello della conoscenza [10].
L’economia policentrica e i semi-commons
Ostrom “ha scoperto” (e auspica) un’economia policetrica non più costretta al dilemma privato o stato [11]: ma avverte anche che la questione della proprietà è molto complessa e che non esistono solo la proprietà comunitaria, privata e statale. In effetti i diritti di proprietà sono molto articolati e i tre tipi di proprietà possono combinarsi e sovrapporsi. Sorge così una nuova categoria di beni ibridi o semi-commons. In generale beni comuni e beni privati si combinano tra loro, così come la rete Internet si combina con i personal computer o i tablet individuali, o come le case private si combinano con le strutture condivise di quartiere. Inoltre le risorse possono essere private o statali in una certa fase storica e comuni in un’altra fase, in relazione alle circostanze sociali, politiche e naturali.
Per esempio nel medioevo in alcune stagioni le terre erano comuni per il pascolo, in altre erano private per l’agricoltura. Le risorse possono inoltre diventare comuni o private anche in relazione alla loro scala dimensionale. Quando le terre sono abbandonati è più facile che vengano gestite in maniera comunitaria. L’acqua abbondante dei fiumi è un bene free access ma l’acqua nei pozzi del deserto diventa un bene scarso che le diverse tribù, o le corporations, cercano di controllare a loro beneficio. I beni possono quindi essere comuni o privati non solo per le loro funzionalità intrinseche ma in base ai differenti contesti naturali e sociali, e alla dimensione della loro disponibilità.
Ostrom avverte però sulla necessità di non confondere i regimi di Common Property con quelli Open-Access. I regimi open access, ad accesso libero, sono quelli – come il mare aperto e l’atmosfera – in cui nessuno ha il diritto legale di escludere altri; al contrario i regimi di common property sono quelli in cui i membri di un determinato gruppo condividono la risorsa comune ma dispongono anche dei diritti di esclusione dall’uso di quella risorsa. La sua analisi è molto articolata: Ostrom identifica cinque distinti diritti di proprietà che sono rilevanti specialmente per le common-pool resources, ovvero l’accesso (access), lo sfruttamento delle risorse (withdrawal), la conduzione (management), il diritto di esclusione (exclusion), e infine quello di alienazione (alienation) [12].
- L’accesso consiste nel diritto di entrare in un’area e di godere benefici non rivali (per esempio sedersi al sole o passeggiare)
- Lo sfruttamento riguarda la possibilità di fruire di beni rivali (come l’acqua o i pesci)
- La conduzione riguarda il diritto di regolare l’uso delle risorse e di trasformarle apportando delle innovazioni
- L’esclusione riguarda la possibilità di determinare che ha diritti di accesso e di sfruttamento e come questi diritti possono essere trasferiti
- Il diritto di vendita riguarda la possibilità di alienare o noleggiare i diritti di management e di esclusione.
Ostrom avverte che generalmente per la scienza economica dominante il diritto di proprietà si riduce al diritto di alienare un bene. Ma la proprietà comune invece generalmente non comprende il diritto di vendita.
Inoltre Ostrom suggerisce che la questione dei beni comuni non è “arcaica” e non riguarda solo beni e modi di produzione “marginali”, come i pascoli alpini o le zone costiere di pesca, o “sorpassati e primitivi” come quelli dei paesi del terzo mondo, ma riguarda anche Internet, l’ambiente, le scienze, il software e le stesse aziende: queste ultime sarebbero infatti dei semi-commons, dei sistemi ibridi che combinano beni privati esclusivi e beni comuni:
“The modern corporation is frequently thought of as the epitome of private property. While buying and selling shares of corporate stock is a clear example of the rights of alienation at work, relationships within a firm are far from being ‘individual’ ownership rights. Since the income that will be shared among stockholders, management, and employees is itself a common pool to be shared, all of the incentives leading to free riding (shirking) and overuse (padding the budget) are found within the structure of a modern corporation. Thus, where many individuals will work, live, and play in the next century will be governed and managed by mixed systems of communal and individual property rights” [13].
Enti economici autonomi e no profit per gestire i commons
Le analisi sui commons sono riprese dall’imprenditore sociale Peter Barnes. Barnes suggerisce che per difendere e sviluppare i commons occorre che questi siano dati in proprietà – ma senza diritto di alienazione – a delle fondazioni no profit che abbiano per statuto come unico scopo sociale quello di preservarli e svilupparli a favore delle comunità e delle generazioni future [14]. Il riferimento di Barnes è L’Alaska Permanent Fund Foundation che ogni anno remunera i cittadini con i dividendi derivati dai ricavi del petrolio dello stato. In Italia la proposta di Barnes si sta concretizzando con il progetto di fondazione del Teatro Valle di Roma – a cui tra l’altro Stefano Rodotà sta dando un notevole contributo -. A Napoli avanza anche la sperimentazione di forme partecipative tra cittadini e enti pubblici dopo la vittoria del referendum sull’acqua. L’intuizione di Barnes è geniale: usa il diritto borghese di proprietà privata per proporre di stabilire il diritto delle comunità a gestire i patrimoni comuni, come le risorse ambientali (per esempio l’acqua) e culturali (per esempio il copyright o i brevetti).
Naturalmente la questione cruciale è che le fondazioni o le altre forme societarie, come le cooperative, siano controllate democraticamente dalle comunità di riferimento e agiscano come fiduciarie responsabili in maniera trasparente del loro operato verso le stesse comunità. In ogni caso enti economici specifici autonomi dallo stato e dal settore privato, appartenenti a un terzo (o a un primo, per importanza?) settore no profit, dovrebbero essere proprietari esclusivi dei beni comuni, sia quelli materiali che immateriali, e dovrebbero gestirli in favore delle diverse comunità locali, nazionali, internazionali.
Il nuovo “terzo settore” dei beni comuni dovrebbe avere la proprietà giuridica dei commons e gestirli e salvaguardarli in un’ottica di lungo periodo a favore delle comunità interessate e delle generazioni future. Le organizzazioni no profit potrebbero inoltre vendere sul mercato il surplus eventualmente disponibile a prezzi equi e non discriminatori alle aziende private, e potrebbero redistribuire i proventi alle comunità: in questo modo i cittadini riceverebbero reddito e si favorirebbe anche la creazione di un mercato competitivo e non monopolistico. Internet è l’esempio principale di bene comune, non ha padroni e non è dello stato, ma è gestita direttamente dalla comunità scientifica e dagli utenti; il free software, i programmi open source, Wikipedia, il browser Firefox, e Creative Commons, l’organismo che gestisce i diversi livelli di copyright, sono governati da fondazioni no profit. Esistono anche numerose fondazioni che gestiscono beni culturali o che salvaguardano le foreste e le risorse ambientali.
Il diritto ai beni comuni: critica alle concezioni giuridiche
Per gli economisti i beni comuni sono risorse condivise: per la maggioranza dei giuristi (specialmente in Italia) i beni comuni sono invece, o devono diventare, diritti universali. Per i giuristi i beni comuni non devono essere ridotti a merci disponibili solo per chi ha il denaro per comprarli: sono invece beni essenziali su cui lo stato ha diritti prioritari per assicurare la loro disponibilità universale. Questa interpretazione è altamente meritoria perché punta a garantire beni indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’umanità sottraendoli a una logica di mercato e speculativa. D’altro lato però, forse particolarmente in Italia, l’interpretazione giuridica dei commons sorvola le analisi socio-economiche che da Ostrom in poi caratterizzano la ricerca scientifica internazionale. L’interpretazione giuridica sembra sottovalutare la questione cruciale della necessità di incoraggiare la gestione diretta e cooperativa dei beni comuni da parte delle comunità e la costituzione di enti economici no profit completamente indipendenti dallo stato e dalle imprese private profit oriented.
Secondo uno dei principali giuristi italiani, caposcuola delle concezioni giuridiche sui beni comuni ne nostro Paese, Stefano Rodotà – che, come si è detto, ha il merito di avere “scoperto” per primo la questione complessa dei beni comuni in Italia – “ …si può dare una prima definizione dei beni comuni: sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future. L’ aggancio ai diritti fondamentali è essenziale” [15].
Rodotà sembra qui confondere i beni comuni, come i pascoli e Internet, con i beni di merito, come il cibo e l’acqua, che hanno un particolare valore sociale e che giustamente devono diventare diritti universali.
Dice Rodotà giustamente “Il punto chiave, di conseguenza, non è più quello dell’“appartenenza” del bene, ma quello della sua gestione, che deve garantire l’ accesso al bene e vedere la partecipazione di soggetti interessati” [16]. Questo è in effetti il vero punto centrale, che però viene successivamente negato a causa della confusione tra beni comuni e beni open access.
Dice Rodotà “I beni comuni sono a titolarità diffusa, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Indisponibili per il mercato, i beni comuni si presentano così come strumento essenziale perché i diritti di cittadinanza, quelli che appartengono a tutti in quanto persone, possano essere effettivamente esercitati…” [17].
Abbiamo già visto che i beni comuni non sono necessariamente res nullius o beni ad accesso aperto. E che non devono necessariamente essere gestiti in un’ottica morale e di solidarietà, ma in un’ottica di cooperazione che combini interessi individuali e di gruppo e che comporti efficienza e sostenibilità.
Dice Rodotà “(Per quanto riguarda Internet) la tutela della conoscenza in Rete non passa attraverso l’individuazione di un gestore, ma attraverso la definizione delle condizioni d’uso del bene, che deve essere direttamente accessibile da tutti gli interessati, sia pure con i temperamenti minimi resi necessari dalle diverse modalità con cui la conoscenza viene prodotta. Qui, dunque, non opera il modello partecipativo e, al tempo stesso, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. È il modo stesso in cui il bene viene “costruito” a renderlo accessibile a tutti gli interessati” [18].
A noi sembra invece che il problema non sia solo quello (ovviamente importantissimo) di garantire l’accesso universale a Internet e alle conoscenze: la questione fondamentale è che i diritti di gestione di questi beni comuni dovrebbero essere affidati alle comunità di riferimento in modo da garantire concretamente i diritti di accesso, altrimenti costantemente minacciati da gestioni private o statali per loro natura tendenzialmente escludenti. La comunità di scienziati, ricercatori, accademici e utenti che definisce gli standard di Internet – e che quindi in un certo senso la controlla – reclama per esempio una gestione multi-stakeholder e partecipata della Rete, ma esclude che questa possa essere gestita dagli Stati, dagli organismi intergovernativi e burocratici dell’Onu, o peggio direttamente dalle corporations. La questione dei diritti di proprietà è basilare, ed è ovviamente squisitamente politica. Se i beni comuni vengono gestiti dagli stati o dai privati diventano esclusivi e non inclusivi, anche per quanto riguarda l’accesso e l’uso da parte dei cittadini. E i commons se sono condotti dallo stato o dai privati non vengono gestiti in maniera efficiente e produttiva ma in generale vengono sprecati.
Dice Rodotà a proposito dei commons “l’ accento non è più posto sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un bene deve svolgere nella società. Partendo da questa premessa, ….Non un’altra forma di proprietà, dunque, ma «l’ opposto della proprietà», com’è stato detto icasticamente negli Stati Uniti fin dal 2003….” [19]. Questa interpretazione sottovaluta il messaggio forte della Ostrom: le comunità possono gestire i beni comuni meglio dei privati e dello stato grazie alla cooperazione, e quindi conviene affidare i beni comuni a enti economici controllati dalle comunità interessate alle diverse tipologie di beni comuni [20]. Quando non è possibile che le comunità gestiscano direttamente i commons, occorre comunque, sia sul piano dell’efficienza economica che sul piano democratico, coinvolgerle a pieno titolo nella gestione dei beni comuni.
Conclusioni
Secondo noi la sinistra non dovrebbe solo difendere i diritti all’accesso ai beni comuni e ai beni di merito, ma dovrebbe soprattutto impegnarsi per attribuire alle comunità i diritti di proprietà dei commons – intesi non come diritti all’alienazione dei beni, ma come diritto (o co-diritto) al loro controllo strategico e alla loro gestione operativa –: e dovrebbe incoraggiare la costituzione di un Terzo Settore di enti economici, come le fondazioni e le cooperative, per la salvaguardia e lo sviluppo di beni comuni come l’ambiente, la cultura, Internet, l’informazione; o comunque dovrebbe favorire la partecipazione dei lavoratori e degli utenti negli organismi decisionali privati e pubblici in cui si decidono i destini dei commons. La questione dei beni comuni è quindi innanzitutto una questione di democrazia economica. In questo senso credo che la sinistra debba approfondire le analisi della Ostrom ed elaborare ulteriormente i suggerimenti di Peter Barnes.
Note
[1] Stefano Rodotà “Il valore dei beni comuni” www.teatrovalleoccupato.it/il-valore-dei-beni-comuni-di-stefano-rodota
[2] Elinor Ostrom, Governing the commons, Cambrige University Press 1988, Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006;
[3] Hess, C. e Ostrom, E. La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Milano, 2009, Bruno Mondadori
[4] Elinor Ostrom, Governing the commons, Cambrige University Press 1988
[5] Science 13 December 1968, Tragedy of the Commons, Garrett Hardin
[6] Vedi: Elinor Ostrom, i casi dei sistemi di irrigazione in Nepal e di conservazione delle foreste nel mondo, Slide di presentazione di Beyond markets and states: polycentric governance of complex economic systems, 2009
[7] Yochai Benkler La ricchezza della rete, 2007; e Enrico Grazzini, L’economia della conoscenza oltre il capitalismo, Codice Edizioni, 2008
[8] Vedi Hess, C. e Ostrom, E. La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Milano, 2009, Bruno Mondadori
[9] Vedi anche Joseph Stiglitz, Knowledge as a Global Public Good, New York: Oxford University Press, 1999
[10] Vedi Enrico Grazzini, Il Bene di Tutti. L’economia della condivisione per uscire dalla crisi, Editori Riuniti, 2011; e L’economia della conoscenza oltre il capitalismo, Codice Edizioni, 2008
[11] Vedi: Elinor Ostrom, Beyond markets and states: polycentric governance of complex economic systems, discorso tenuto in occasione del premio Nobel, 8 dicembre 2009
[12] Elinor Ostrom, Private and common property rights, 2000
[13] Elinor Ostrom, Private and common property rights, 2000
[14] Peter Barnes, Capitalismo 3.0, Egea, 2006
[15] Stefano Rodotà “Il valore dei beni comuni” La Repubblica, 5 gennaio, vedi anche http://www.teatrovalleoccupato.it/il-valore-dei-beni-comuni-di-stefano-rodota
[16] Idem
[17] Idem
[18] Idem
[19] Idem
[20] Il messaggio forte della Ostrom e della teoria dei beni comuni sembra essere stato sottovalutato anche dalla Commissione sui Beni Pubblici presieduta da Stefano Rodotà, istituita dal Ministero della Giustizia nel giugno 2007 per elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici. La Commissione è stata istituita per la necessità di azioni concrete e urgenti sul debito pubblico: in pratica si trattava di capire quali beni pubblici rendere indisponibili per il mercato e invece quali valorizzare adeguatamente per tentare di affrontare il problema dell’enorme debito pubblico che affligge l’economia italiana.
La Commissione ha distinto i beni in tre categorie: beni comuni, beni pubblici, beni privati. Per la prima volta ha quindi meritoriamente previsto la specifica categoria dei beni comuni: in particolare per la Commissione i beni comuni sono “delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge”. La commissione Rodotà quindi propone la fruizione collettiva dei beni ma non esplicitamente la proprietà e/o la gestione comunitaria. Nei testi della Commissione le comunità non vengono mai citate. Secondo la Commissione sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. Sono beni che soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche”. Ma questa definizione di beni comuni sembra confondere i commons con i beni ad accesso libero e quindi si allontana e diverge fondamentalmente da quella della Ostrom.
Secondo la Commissione i beni comuni non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche ma anche a privati. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque. Salvi i casi di legittimazione per la tutela di altri diritti ed interessi, all’esercizio dell’azione di danni arrecati al bene comune e’ legittimato in via esclusiva lo Stato. Allo Stato spetta pure l’azione per la riversione dei profitti. Lo stato resta quindi per la Commissione, il principale referente dei beni comuni. Occorre tuttavia sottolineare che le coraggiose proposte della Commissione non sono state accolte dal legislatore e dai successivi governi.