Schede e approfondimenti

Beni comuni come risorse esauribili

Nel corso del XVII secolo in Inghilterra scomparvero le terre comuni o comunitarie, i commons quelle che per diritto consuetudinario erano di uso collettivo delle popolazioni rurali. Recintate poco a poco, furono trasformate in proprietà privata con leggi apposite, Enclosure  Bills, leggi sulla recinzione. La scomparsa dei commons fu una premessa della rivoluzione industriale, le terre erano recintate perché servivano all’allevamento intensivo di pecore la cui lana era necessaria alla nascente industria tessile, e fu seguita da un’offensiva ideologica contro l’uso condiviso della terra, a favore della libertà di trasformarla in bene commerciale. Le terre di uso comune però non sono tutto scomparse (terre, pascoli, foreste, e sorgenti d’acqua da cui attingere, o fiumi e lagune con i pesci che vi si possono pescare, e così via): forme di proprietà e uso collettivo restano molto diffusi nel grande Sud del mondo e in parte, sotto forma di usi civici, perfino nella vecchia Europa. La battaglia attorno ai beni comuni, non è scomparsa così come la spinta a recintarli/privatizzarli anzi si è accentuata. E ormai non si tratta solo terre o risorse naturali, ma di un’amplissima gamma di beni e servizi necessari alla sussistenza degli umani e al loro benessere collettivo.

Beni privati, beni pubblici e beni comuni

Secondo la teoria economica e la definizione del premio Nobel per l’economia, Paul Samuelson, le caratteristiche che distinguono i beni pubblici da quelli privati sono due. I beni pubblici possono essere simultaneamente fruiti da più individui, principio della non rivalità, e nessun individuo può essere escluso dalla loro fruizione, principio della non escludibilità. Queste due caratteristiche, tuttavia, non fanno i conti con il vincolo costituito dalla scarsità del bene. Essendo il bene pubblico limitato, va da sé che la simultanea fruizione da parte di più utenti è soggetta ad una soglia di fruibilità, che pone limiti alla quantità dei fruitori e quindi impone condizioni di escludibilità, necessarie per evitare l’esaurimento del bene stesso o il prodursi di congestione che riduce, fino al limite di annullare, l’utilità del bene stesso.

I beni comuni sono quindi secondo questi parametri non escludibili ma rivali. A questo riguardo nel 1968 Garret Hardin, un biologo, ha scritto un articolo, dal titolo “The Tragedy of the Commons”,che nel corso degli anni è stato preso come punto di riferimento nel dibattito sui beni comuni. Commons è l’antica denominazione anglosassone delle terre comuni. La sua tesi è che la debolezza dell’idea di bene comune sta proprio nella libertà del suo uso da parte di chiunque: “il fatto stesso che i commons siano di libero accesso e che non esista la possibilità di limitare il numero degli utilizzatori porta a una situazione dove il comportamento razionale di ciascuno di loro non può che causare il degrado o la distruzione della risorsa stessa, poiché essi si trovano intrappolati in una tragedia della libertà basata su di un irrisolvibile conflitto tra interessi individuali e interesse collettivo, con l’inevitabile prevalere del primo sul secondo”.

L’idea di matrice essenzialmente economica di Hardin, è stata però messa in discussione dalla ricercatrice Elinor Ostrom con la pubblicazione nel 1990 di “Governare i beni collettivi”. In essa viene rilevato che, tanto la gestione autoritaria-centralizzata dei beni quanto la sua privatizzazione, non costituiscono la soluzione né sono prive di problemi rilevanti. In “Governare i beni collettivi”, partendo dallo studio di casi empirici, nei quali viene mostrato come gli individui reali non siano irrimediabilmente condannati a rimanere imprigionati nei problemi legati allo sfruttamento in comune di una risorsa, è posta in discussione soprattutto l’idea che esistano dei modelli applicabili universalmente.

Al contrario, in molti casi, le singole comunità appaiono essere riuscite a evitare i conflitti improduttivi e a raggiungere accordi su una utilizzazione sostenibile nel tempo delle risorse comuni tramite l’elaborazione endogena di istituzioni deputate alla loro gestione. Nonostante siano presenti ovunque i beni comuni, sono difficili da definire, forniscono sussistenza, sicurezza e indipendenza ma non sono merci. Normalmente è la comunità locale che decide chi può usarli e come. Si possono distinguere tre categorie di beni comuni.

Una prima categoria comprende: l’acqua, la terra, le foreste e la pesca, navale a dire i beni di sussistenza da cui dipende la vita, in particolare quella degli agricoltori, dei pescatori e dei nativi che vivono direttamente sulle risorse naturali. A questa categoria di beni comuni appartengono anche: i saperi locali, i semi selezionati nei secoli dalle popolazioni locali, il patrimonio genetico dell’uomo e di tutte le specie vegetali e animali, la biodiversità.

Per beni comuni non s’intendono solo le risorse naturali in quanto tali, ma anche i diritti collettivi d’uso, da parte di una determinata comunità, a godere dei frutti di quella data risorsa, diritti denominati usi civici. Ciò che contraddistingue sia i beni comuni sia gli usi civici è la particolare forma di proprietà e di gestione degli stessi, forma che è comunitaria, e che pertanto non è né pubblica né privata. Contrariamente a quanto si crede, gli usi civici e le terre collettive esistono ancora e sono importanti anche nei paesi industrializzati: in Italia, ad esempio usi civici e terre collettive ricoprono ancora un sesto del territorio nazionale.

Una seconda categoria di beni comuni comprende i beni comuni globali: l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva. Questi beni solo recentemente sono stati percepiti come beni comuni globali, dal momento cioè in cui sono sempre più invasi ed espropriati, ridotti a merce, recintati ed inquinati, e il loro l’accesso è sempre più minacciato.

Una terza categoria di beni comuni è quella dei servizi pubblici forniti dai governi in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, bisogni che ovviamente variano nel tempo. Si tratta di servizi quali: erogazione dell’acqua, della luce, il sistema dei trasporti, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale, l’amministrazione della giustizia. i processi di privatizzazione di alcuni servizi che distribuiscono i beni comuni ne mettono a rischio l’accesso universale.

Liberalizzare e brevettare

Sulla liberalizzazione dei servizi pubblici, tra cui l’acqua, sono in corso accordi internazionali come il General Agreement on Trade on Services (GATS) Accordo Generale sul Commercio di Servizi, che tendono a due obiettivi fondamentali: rendere i servizi pubblici compresa l’istruzione, la sanità, la distribuzione di acqua, gas, elettricità, ecc. aperti alla concorrenza internazionale e, di conseguenza, privatizzare i servizi pubblici. La stessa Unione Europea, ispirandosi all’analisi ed alle proposte della Banca mondiale, continua a propugnare la liberalizzazione e privatizzazione dei beni comuni come mezzi di scambio nei rapporti commerciali, come risulta dagli ultimi negoziati con i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) eMERCOSUR, mercato comune del sud America.

L’altra crisi investe, come accennato, i servizi che assicurano, più che i beni comuni, il bene comune: l’istruzione, la sanità, l’assistenza e la previdenza sociale. Ultimo ma non meno importante e particolarmente significativo è il capitolo riguardante la conoscenza come bene comune: i brevetti delle idee, il software in particolare, l’estensione del copyright ai contenuti digitali, le politiche che tendono a rendere reato la condivisione delle conoscenze, delle formule chimiche e quindi dei principi attivi dei farmaci e perfino del codice genetico, la cosiddetta biopirateria, pongono un forte interrogativo sul futuro del progresso scientifico e tecnologico.

Infine, il tema dei beni comuni sottende ad un recupero di modelli di compartecipazione e di decisione basati sulla democrazia diretta, partecipativa, per tutti coloro che hanno diritto all’accesso aperto ai beni comuni, siano municipalità o gruppi e reti cittadine, soggetti singoli o collettivi di cui negli ultimi anni si stanno occupando fra gli altri l’ARNM (Associazione Reti Nuovo Municipio).

I mercati globali e lotte per la terra

Con il diffondersi del modo di produzione industriale che è penetrato in ogni angolo del pianeta, ai beni comuni si è andata contrapponendo una categoria totalmente diversa di prodotti: quella del cibo/merce,destinato ad esportazioni in località lontane ad opera di aziende agricole e commerciali moderne e specializzate, che mirano sistematicamente ad incrementare le rese unitarie e ad abbattere i costi di produzione. Questo modello economico, funzionale allo sviluppo di mercati nazionali o sovranazionali per l’approvvigionamento di vaste masse di consumatori, è stato progettato e controllato nel corso della storia recente. In particolare dalle classi dirigenti degli stati nazionali moderni, dal sistema organizzativo delle imprese nazionali e multinazionali e da istituzioni sovranazionali del calibro del Fondo Monetario Internazionale (FMI), della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio WTO.

A queste organizzazioni si oppongono da ormai un decennio i movimenti della società civile, che a partire da Seattle propongono modelli diversi, e in varie arene alternative, come ilForum Sociale Mondiale. L’autosufficienza, la sovranità e la sicurezza alimentare delle popolazioni locali che delle risorse naturali vivono per assicurarsi il loro sostentamento hanno storicamente costituito per questi poteri centrali niente più che ostacoli da abbattere sulla strada maestra dello sviluppo dell’agricoltura e, soprattutto, dell’incremento dei commerci.

Il meccanismo dei mercati globali hanno piegato il vivente alle loro aspettative di crescita illimitata, e per realizzare questo obiettivo hanno fatto ricorso a ogni tipo di manipolazione meccanica o biochimica dei fattori di produzione, impiegando le ingenti possibilità tecnologiche grazie alle fonti energetiche fossili e ai prodotti chimici di sintesi. Ciò ha comportato l’immissione di enormi quantità di sostanze nocive e persino di OGM (organismi geneticamente modificati) negli ecosistemi, con i relativi impatti destabilizzanti, sulla salute umana, sui sistemi biologici e sullo stesso clima terrestre per via dell’effetto serra.

Ormai è ampiamente riconosciuto da studiosi avveduti e persino dalla FAO l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, che le policolture tradizionali di piccola scala sono quantitativamente più produttive delle monocolture convenzionali; eppure il senso comune dei cittadini del Nord del mondo continua a nutrire la falsa convinzione che solo l’agricoltura industriale sia in grado di sfamare un’umanità in crescita. Invece una delle principali cause della fame nel mondo sta proprio nel fatto che nei Paesi impoveriti gli ecosistemi vengono sistematicamente sfruttati mediante produzioni da reddito di ogni genere da esportare principalmente nei Paesi ricchi, in tal modo sottraendo risorse vitali indispensabili alla sussistenza di tanta parte delle popolazioni locali.

In tante parti del mondo i poveri rurali lottano contro i piani dei detentori di capitali quando questi minacciano le possibilità di accedere a un’esistenza dignitosa, in nome del diritto all’autogoverno sostenibile dei territori in cui vivono. Tra i più conosciuti il Movimento Sem Terra, che si batte per la riforma agraria in Brasile, ma sono innumerevoli gli episodi di sofferenza di popolazioni locali colpite da provvedimenti di sviluppo territoriale che rimangono spesso sconosciuti.

E’ questo il caso ad esempio delle enclosures (privatizzazioni forzate) di vastissime terre ancestrali realizzate da vari decenni e in particolar modo negli anni ’80 lungo il corso del fiume Senegal per l’insediamento di grandi opere idrauliche e relativi progetti di agricoltura irrigua orientata all’esportazione. Le conseguenze sono state devastanti per i modi di vita tradizionali, con vaste folle di rifugiati ambientali costretti a lasciare le loro terre e sanguinosi scontri cosiddetti etnici tra soggetti che si contendono risorse idriche sempre più scarse per motivi climatici ma soprattutto per l’avidità di chi si avvale di possibilità tecniche di utilizzo in Oceania, Sudamerica, Africa e non solo.

La “guerra” dell’acqua

La situazione maggiormente critica attualmente è rappresentata dall’acqua, bene comune per eccellenza, assolutamente indispensabile alla vita. Sebbene ovviamente nessuno abbia mai proposto la privatizzazione della risorsa in sé, i processi di privatizzazione che coinvolgono le reti idriche nei fatti compromettono lo status di bene comune: dove gli acquedotti sono stati privatizzati, la logica del profitto ha provocato consistenti aumenti delle tariffe, un peggioramento della qualità dell’acqua, l’esclusione dei morosi e delle fasce sociali più deboli.

Inoltre, nei paesi più poveri l’accesso all’acqua è divenuto motivo di conflitti le cosiddette guerre dell’acqua spesso dovuti un processo di colonizzazione che i paesi ricchi hanno attuato nei paesi poveri, dove la maggior parte degli acquedotti è in mano a società europee e americane. Emblematiche sono state le giornate di aprile del 2000, quando tutta la città di Cochabamba è scesa nelle strade per manifestare contro la decisione di una multinazionale statunitense, Bechtel di privatizzare le risorse idriche del paese, che costrinsero il governo a revocare la legislazione sulla privatizzazione.

Nel mondo, i movimenti sociali sono sempre più i protagonisti delle lotte in difesa di un’agricoltura legata ad un nuovo rapporto con la terra e per la democrazia delle risorse idriche. In Italia, associazioni, gruppi e comitati locali già dal 2005 sono attive nei territori decine di vertenze aperte da cittadini, lavoratori ed anche amministratori locali che sono portatrici di un’esigenza comune e condivisa, cioè la necessità di una svolta radicale rispetto alle politiche liberiste che hanno fatto dell’acqua una merce e del mercato il punto di riferimento per la sua gestione, provocando dappertutto degrado e spreco della risorsa, peggioramento della qualità del servizio, aumento delle tariffe, riduzione degli investimenti, diseconomie della gestione.

Nascono così vari coordinamenti come il Forum italiano dei movimenti per l’acqua che hanno promosso raccolta firme per la presentazione di una legge di iniziativa popolare in favore della pubblicizzazione dell’acqua in quanto con l’articolo 23bis della legge 133/2008, si affida “il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica”.

Inoltre da ricordare la campagna della rivista Altreconomia “Imbrocchiamola!” per diffondere l’uso dell’acqua del rubinetto, sono più di mille, in tutte le Regioni italiane, i ristoranti e i locali pubblici che hanno aderito. Intanto la Bolivia e l’ Ecuador, hanno recentemente approvato una nuova Carta costituzionale, che estende i diritti sociali all’acqua, al cibo, alla casa, all’energia, all’istruzione, alla salute e difende la natura e le risorse che sono alla base di quei diritti.

La definizione originaria di “beni comuni” e il problema del loro sfruttamento

Il concetto di “beni comuni” (“common goods”), in economia, indica originariamente quei beni quali le risorse naturali (acqua, la fauna, ecc.) esauribili, ma dal cui sfruttamento nessuno può essere escluso. I beni comuni sono anche definiti più precisamente come “beni di proprietà comune” – il che non va confuso con la proprietà pubblica, cioè dello Stato o altra istituzione pubblica. Si tratta di una distinzione non secondaria, di cui parleremo più avanti, perché presuppone un diverso modello di gestione, al di là della “mera proprietà”.

Il problema originario dei beni comuni era (ed è) quello di stabilire delle regole che permettessero lo sfruttamento tendenzialmente universale della risorsa prevenendone l’esaurimento. Come scrisse il biologo Garrett Hardin, nel noto saggio “The tragedy of the commons”, pubblicato su “Science” nel 1968, il problema della preservazione dei beni comuni è nel loro libero accesso. Prendiamo l’esempio di un terreno destinato a pascolo: fin quando gli allevatori avranno poche mucche, non sussiste impedimento allo sfruttamento del pascolo da parte di chiunque. La situazione è di equilibrio: quattro o cinque pastori portano le vacche al pascolo (diciamo dieci ciascuno), queste mangiano l’erba in quantità tale da permetterne la rigenerazione. I loro escrementi concimano il terreno, favorendo la crescita del pascolo. Tutto insomma procede per il meglio, nel rispetto degli equilibri naturali, nonostante il fatto che stiamo esaminando una situazione artificiale, nella quale c’è l’intervento dell’uomo. Si tratta tuttavia di un intervento compatibile con i cicli naturali, che non sconvolge l’ecosistema del pascolo, ma semplicemente riproduce, per trarne profitto, una situazione simile a quella che si sarebbe prodotta spontaneamente.

Se però uno degli allevatori decide un giorno di acquistare altro bestiame, diciamo altri 100 capi, e di lasciarlo pascolare liberamente sul terreno, il consumo d’erba sarà eccessivo ed essa non avrà il tempo di ricrescere. Gli zoccoli degli animali compatteranno il terreno, ostacolando l’insediamento dei semi e quindi la crescita di nuova erba. In breve, il pascolo sparirà, lasciando il posto ad un terreno spoglio, con grave danno per gli altri allevatori, ma anche per il “colpevole”. Ecco quindi la tragedia: un bene comune, in quanto tale, deperisce a causa del suo sfruttamento. Non essendovi regole che possano impedire ad uno degli allevatori di far pascolare solo 10 capi invece che 110, inevitabilmente accadrà che prima o poi qualcuno vorrà approfittare della gratuità del bene, sottraendolo agli altri (ma a lungo termine anche a se stesso). La tragedia è insita, dice Hardin, nella natura del bene comune.

A ben vedere, si tratta di una formulazione del classico “dilemma del prigioniero”. Due detenuti sono rinchiusi in celle separate. Non possono comunicare tra loro. Sanno che se collaborano con la giustizia verrà loro dimezzata la pena, ma se lo fanno dovranno inevitabilmente accusare l’altro e questi verrà condannato ad una pena più dura. Si può dimostrare che egoisticamente entrambi tenderanno a confessare, condannandosi a vicenda. La soluzione più vantaggiosa del dilemma, al contrario, sarebbe quella di non collaborare con la giustizia, ma di essere solidali con il proprio complice-vicino. Così nei beni comuni: approfittare del bene, alla fine, danneggia anche chi lo fa, mentre il comportamento più equo e solidale è quello che assicura forse profitti immediati meno esorbitanti, ma allunga la disponibilità del bene stesso.

Alla provocazione di Hardin si è risposto con la formazione di due scuole di pensiero. La prima, quella che chiameremo liberista, sostiene che la soluzione della tragedia va ricercata nel mercato. Privatizzare i beni comuni, si sostiene, costituisce un freno all’eccesso di sfruttamento. Riprendendo l’esempio del pascolo, si potrebbe privatizzare il terreno, magari dividendolo tra i diversi allevatori. Nessuno di loro, quindi, potrà depauperare le risorse dell’altro e il pascolo rimarrà in equilibrio. E’ facile però obiettare che nessuno assicura che tutti gli allevatori sfrutteranno la loro parte oltre il limite di sopportazione sistema-pascolo. Può al contrario accadere facilmente che uno di loro decida di farvi pascolare 100 capi. Per un breve periodo, fin quando il pascolo non si sarà esaurito, l’allevatore “rampante” guadagnerà dieci volte il profitto dei suoi concorrenti i quali, a loro volta, saranno indotti a comportarsi alla stessa maniera, distruggendo l’intera risorsa. La natura della proprietà, quindi, non pare essere un freno alla “cupidigia” dei singoli. Inoltre c’è una questione che non viene affrontata: quando il terreno era un bene comune, in ogni momento un nuovo allevatore poteva decidere di farvi pascolare la propria mandria ma, una volta diviso tra gli allevatori originari, solo loro e i loro eredi potranno sfruttare l’erba che vi cresce.

Del resto “privato” non è forse il participio passato di “privare”?

Si potrebbe anche pensare che il terreno, stavolta indiviso, venga acquistato da una persona esterna al gruppo di allevatori, la quale potrebbe affittare per l’uso pastorizio a chiunque. In tal modo – sostiene la scuola liberista – il proprietario si comporterà in modo tale che il pascolo rimanga sempre florido, poiché esso è la sua fonte di profitto e sarà suo interesse evitarne il depauperamento. Evidentemente non si può pensare che il proprietario ceda gratuitamente l’uso della risorsa, poiché non guadagnandoci nulla sarebbe indotto a lasciarla deperire. Ma anche in tal caso è facile obiettare che la gestione da parte del proprietario non sarà necessariamente la migliore possibile. Egli potrebbe decidere, ad esempio, di concederne l’uso esclusivo ad uno degli allevatori, dietro lauto compenso. Del resto l’allevatore potrebbe essere indotto a pagare anche un prezzo molto alto, pur di sbaragliare la concorrenza. Una volta incassato l’affitto, facilmente superiore al prezzo di acquisto del terreno, il nostro proprietario abbandonerà il pascolo al suo destino, vale a dire quello di diventare un fazzoletto di terra arido e ostile alla vita vegetale e animale. Al contrario, forse animato dal totem liberista della libera concorrenza e della mano invisibile del mercato, il proprietario potrebbe pubblicare un annuncio pubblicitario sui quotidiani dei paesi a valle: “Pascolo fresco a modico prezzo”, nel quale spiegherebbe come il suo pascolo, curato e innaffiato, sia migliore di quelli naturali o di quelli altrui. In tal modo, potrebbe ottenere che i più allevatori gli paghino l’affitto. Molto guadagno, ma anche molto più sfruttamento e deperimento della risorsa. Ancora, il nostro astuto capitalista in erba (erba da pascolo, ovviamente), potrebbe semplicemente proibire l’accesso a tutti: in tal modo il prezzo del pascolo accanto, sempre di sua proprietà, salirebbe vertiginosamente. E’ quel che accade nel mercato immobiliare, nel quale un certo numero di abitazioni viene tenuto appositamente sfitto per drogare il mercato. E ovviamente nessuno può impedirlo, a meno di violare il sacro diritto di proprietà.

Infine (ma gli esempi potrebbero continuare ancora) il proprietario può anche decidere di costruire un bel villaggio turistico tra i monti proprio su quel terreno. Basterà pagare abbastanza un funzionario del Comune per ottenere il cambiamento di destinazione d’uso del terreno.
La seconda scuola è quella che potremmo definire socialdemocratica classica. Essa sostiene che il bene comune va semplicemente statalizzato. Sarà infatti lo Stato a dare in concessione il pascolo ai diversi allevatori, in condizione di parità di accesso, o comunque lo sfrutterà per il bene di tutta la comunità. Non è forse lo Stato (almeno in un regime democratico) il più autentico rappresentante degli interessi generali? Vi sono molte ragioni per sostenere questa tesi, né è il caso qui di preoccuparsi di confutarla in nuce. E, tuttavia va rilevato come l’attuale crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia verso la politica di strati sempre maggiori della popolazione, la corruzione, e altri fenomeni degenerativi che in Italia abbiamo conosciuto fin troppo bene pongono qualche interrogativo sulla sufficienza di un controllo statale dei beni comuni. Né è possibile pensare che ognuno di questi possa essere efficacemente gestito attraverso concessioni che mettono in moto innumerevoli ingranaggi burocratici.

La soluzione – che nasce dall’esperienza della democrazia partecipativa – come vedremo più avanti, è un’originale mix di autogoverno e socialdemocrazia. Una “terza via” tra il “privato” e lo “statale” che disegna una nuova idea di “pubblico” in cui lo Stato è uno degli attori, non l’unico.

Gli obblighi verso i beni comuni

Dicevamo che la tragedia dei beni comuni consiste nella loro esauribilità e nell’accesso indiscriminato ad essi. Tuttavia beni che in origine erano considerati inesauribili sono diventati ben presto risorse scarse. Considerando ad esempio l’aria, essa poteva dirsi inesauribile prima dell’era industriale: oggi, invece, l’inquinamento ne compromette la qualità e la possibilità di “sfruttarla” per la vita, in quanto troppo “sfruttata” come deposito di scorie.

La tutela dei beni comuni, quindi non può ridursi alla mera regolazione dell’accesso.

Possiamo indicare alcuni obiettivi, alcuni “obblighi” verso di essi:

  • la prevenzione dell’esaurimento;
  • il mantenimento della qualità originaria;
  • il mantenimento – o addirittura l’incremento – della disponibilità della risorsa, stante l’incremento demografico e dei consumi;
  • l’accesso universale;
  • la difesa della proprietà comune del bene.

Come si comprende facilmente, prevenire l’esaurimento del bene comune non significa solo normarne l’accesso, ma include anche il mantenimento della quantità e della qualità originaria del bene. Ad esempio, chi concede un bosco ad imprese di legname non può limitarsi ad assicurare l’accesso con criteri che rispettino la libera concorrenza, ma deve occuparsi anche del rimboschimento.

Criticità attuali: acqua e saperi

La maggiore criticità attualmente è rappresentata dall’acqua, bene comune per eccellenza in quanto assolutamente indispensabile alla vita. Difatti, sebbene ovviamente nessuno abbia mai proposto la privatizzazione della risorsa in sé, i processi di privatizzazione che coinvolgono le reti idriche nei fatti compromettono lo status di bene comune: dove gli acquedotti sono stati privatizzati, infatti, la logica del profitto ha portato a consistenti aumenti delle tariffe, ad un peggioramento della qualità dell’acqua erogata, all’esclusione dei morosi e delle fasce sociali più deboli. Inoltre nei paesi più poveri l’accesso all’acqua è divenuto motivo di conflitti armati (“le guerre dell’acqua”). Per non parlare del processo di “colonizzazione” che i paesi ricchi hanno attuato nei riguardi della risorsa nei paesi poveri, dove la maggior parte degli acquedotti è infatti in mano a società europee e americane.
Non sempre è stato così: Adam Smith, ad esempio, sosteneva che sebbene l’acqua abbia un grande valore d’uso, essa non possedeva alcun valore di scambio. Ogni volta che compriamo una bottiglia di acqua minerale contraddiciamo questa affermazione.

Sulla liberalizzazione dei servizi pubblici (tra cui l’acqua) sono in corso accordi internazionali (il GATS: General Agreement on Trade on Services) che tendono a due obiettivi fondamentali:

  • rendere i servizi pubblici (compresa l’istruzione, la sanità, la distribuzione di acqua, gas, elettricità, ecc.) aperti alla concorrenza internazionale
  • privatizzare i servizi pubblici.

Un cenno d’obbligo merita anche la famosa direttiva Bolkenstein, che impone che un servizio erogato da un’impresa in uno Stato dell’Unione europea venga assoggettato alle norme presenti nel paese d’origine dell’impresa, creando così la possibilità di scardinare il sistema di protezione sociale più stringente dei paesi dell’Europa occidentale.

L’altra criticità riguarda i servizi che assicurano, più che dei “beni comuni”, il “bene comune”: l’istruzione, la sanità, l’assistenza e la previdenza sociale.
Last but not least, un capitolo particolarmente significativo è quello della Conoscenza come bene comune: la brevettazione delle idee (il software, in particolare), l’estensione del copyright ai contenuti digitali, le politiche che più in generale tendono a rendere reato la condivisione delle conoscenze, la brevettazione delle formule chimiche (e quindi dei principii attivi dei farmaci), la brevettazione del codice genetico fino alla cosiddetta biopirateria, pongono un forte interrogativo sul futuro del progresso scientifico e tecnologico, con tutte le ricadute facilmente immaginabili sull’intera umanità. Nei fatti i beni comuni legati all’immaterialità oggi sono sotto attacco almeno quanto quelli materiali. E nella società dell’informazione e della conoscenza, i saperi sono indispensabili quasi quanto l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo. 

Il problema della gestione

Si è detto che vi sono due modi “classici” per gestire i beni comuni: uno liberista e l’altro “statalista”. Ma l’esperienza della democrazia partecipativa, in particolare del bilancio partecipato, ci dà una terza possibilità: quella che prevede, accanto alle istituzioni pubbliche, comitati di cittadini e associazioni che dicano la loro sulle regole e sulle scelte concrete riguardanti la gestione del bene.

Non si tratta di una novità tout court. Qualcosa di simile avveniva sin da Medioevo, soprattutto nei paesi anglosassoni, dove il concetto di “beni comuni” (i “commons”) ha valenza giuridica. Ma anche in Italia esiste una tradizione, che oggi va sotto il nome di “usi civici”. Terreni agricoli e pastorali che appartengono a comunità, gestiti da comitati di cittadini interessati al loro utilizzo, spesso in collegamento con l’istituzione del luogo. Un esempio sono le cosiddette “Regole trentine”, riformate in peius recentemente.

Ad esempio, negli Ambiti Territoriali Ottimali per i servizi idrici, è possibile introdurre, accanto al comitato di gestione istituzionale, un comitato formato da cittadini e rappresentanti di associazioni con poteri effettivi di co-decisione. In tal modo il bene acqua cessa di essere un bene “statale” e ritorna alla sua natura di bene “comune”, “comunitario”.