[Secondo Leibniz,] dato un segmento rettilineo, questo non è composto di punti [indivisibili, finiti o infiniti], come si potrebbe credere, ma da un’infinità di altri segmenti più piccoli [Se i punti fossero infiniti, – egli sostiene – fissati due segmenti di lunghezza diversa, ad ogni punto del primo si potrebbe far corrispondere un unico punto del secondo e viceversa, in contrasto con l’assioma euclideo (accettato da Leibniz) che stabilisce che il tutto è maggiore della parteInoltre Leibniz, ragionando per assurdo, dimostra che un segmento non può essere composto da un numero finito di punti indivisibili]. In maniera analoga, qualsiasi corpo è composto di altri corpi: di aggregati di parti divise ad infinitum e non di atomi materiali [ossia porzioni indivisibili di materia]. Risulta in tal modo che quello che a noi, nell’esperienza quotidiana, appare come continuo (il bordo di un tavolo, un righello di legno, la superficie di uno specchio, eccetera) è in realtà un’unione di parti contigue [ossia parti le cui estremità si toccano ma non coincidono, altrimenti sarebbero continue].
(M. Mugnai, Leibniz, Le Scienze, Milano 2002)
La materia è un ente discreto, non continuo, ma soltanto contiguo.
(G. W. Leibniz, De Summa Rerum (1675 – 1676), in M. Mugnai, cit.)
La materia non è un continuo, ma un discreto diviso in atto all’infinito.
(G. W. Leibniz, lettera a B. de Volder (11 ottobre 1705), in M. Mugnai, cit.)
Sono tanto a favore dell’infinito attuale che, invece di ammettere che la Natura lo aborrisca, come si dice comunemente, io sostengo che si manifesta dovunque, per meglio sottolineare le perfezioni del suo Autore. Perciò sono convinto che non vi sia alcuna parte della materia che non sia, non dico divisibile, ma attualmente divisa; pertanto, la più piccola particella dovrebbe essere considerata come un mondo pieno di una infinità di creature diverse.
(G. W. Leibniz, lettera a S. Foucher (fine giugno 1693); or. francese e trad. inglese in O. Nachtomy, Infinity and Life, in O. Nachtomy – J. E. H. Smith (curr.), The Life Sciences in Early Modern Philosophy, Oxford University Press, new York 2014)
[64] Il corpo organico di ogni vivente è una specie di macchina divina o di automa naturale che supera infinitamente tutti gli automi artificiali. Perché una macchina fatta dall’arte dell’uomo non è una macchina in ciascuna delle sue parti. Per esempio, il dente di una ruota di ottone ha parti o frammenti che non sono più per noi qualche cosa di artificiale e non hanno più nulla con carattere di macchina riguardo all’uso cui la ruota è destinata. Ma le macchine della natura, cioè i corpi viventi, sono ancora macchine nelle più piccole parti, all’infinito. Ciò determina la differenza fra la natura e l’arte, cioè la differenza fra l’arte divina e la nostra.
[65] E l’autore della natura ha potuto operare questo artificio divino e infinitamente meraviglioso perché ogni porzione di materia non solo è divisibile all’infinito, come hanno già riconosciuto gli antichi, ma è anche suddivisa attualmente [in atto] senza fine, ogni parte in parti, ognuna delle quali ha qualche movimento proprio; altrimenti sarebbe impossibile che ogni porzione di materia potesse esprimere tutto l’universo.
[67] Ogni porzione di materia può essere concepita come un giardino pieno di piante, e come uno stagno pieno di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro dell’animale, ogni goccia dei suoi umori è ancora un giardino, uno stagno.
[68] E quantunque la terra e l’aria interposta fra le piante del giardino, o l’acqua interposta fra i pesci dello stagno, non siano punto [affatto] pianta né pesce, esse ne contengono tuttavia ancora; ma per lo più di una piccolezza a noi impercettibile.
(G. W. Leibniz, Monadologia (1714), traduzione e cura di E. Colorni, Sansoni, Firenze 1935)
[In Leibniz (Hoepli, Milano 2015), M. R. Antognazza scrive che, sin dai suoi primi scritti di carattere fisico (1671), Leibniz espresse “la visione della realtà della natura come infinita “ripetizione” del medesimo schema. La scoperta di un’infinità di microcosmi, rivelati dalle ricerche di microscopisti come Robert Hooke, Pierrre Borel e Marcello Malpighi, ebbe un ruolo decisivo nella formazione di questo modello esplicativo” (p. 135)].
Le cose reali sono composte come un numero lo è di unità, quelle ideali come un numero è composto di frazioni: le parti sono reali nella totalità reale, non in quella ideale. In effetti, quando cerchiamo le parti reali nell’ambito delle cose possibili, e quelle indeterminate in quello delle cose reali, stiamo confondendo le cose ideali con quelle reali, e ci avviluppiamo nel labirinto del continuo e in contraddizioni inestricabili.
(G. W. Leibniz, lettera a B. de Volder (19 gennaio 1706); trad. inglese in R. T. W. Arthur: Leibniz’s Actual Infinite in Relation to his Analysis of Matter, in D. Rabouin, P. Beeley, N. B. Goethe (curr.), G.W. Leibniz. Interrelations between Mathematics and Philosophy – Springer Verlag (2015)
Nelle cose reali, i componenti semplici sussistono prima dei composti, in quelle ideali la totalità precede le parti. Il labirinto del continuo ha avuto origine dall’aver trascurato questa considerazione.
(G. W. Leibniz, lettera a B. des Bosses (31 luglio 1709); trad. inglese in R. T. W. Arthur, cit.)
Nell’ideale o continuo il tutto è anteriore alle parti, come l’unità aritmetica è anteriore alle frazioni che la dividono e che vi si possono assegnare arbitrariamente: le parti non sono che potenziali; ma nel reale, il semplice è anteriore agli aggregati, le parti sono attuali, vengono prima del tutto. Tali considerazioni tolgono le difficoltà riguardo al continuo, le quali presuppongono che il continuo sia qualcosa di reale e abbia parti prima di qualsiasi divisione [ossia, prima che sia effettivamente suddiviso].
(G. W. Leibniz, lettera a N. Remond (luglio 1714), in M. Mugnai, cit.)
Essendo propriamente il nostro metodo quella parte della matematica generale che tratta dell’infinito, ciò fa sì che se ne abbia gran bisogno quando si applica la matematica alla fisica, poiché il carattere dell’Autore infinito entra abitualmente nelle operazioni della natura.
(G. W. Leibniz, Considerazioni sulla differenza che sussiste fra l’analisi ordinaria e il nuovo calcolo delle [curve] trascendenti (1694), in R. Guénon, I princìpi del calcolo infinitesimale, Adelphi, Milano 2011)
L’analisi che viene spiegata in quest’opera presuppone quella comune, ma ne è molto diversa. L’analisi ordinaria non tratta che di grandezze finite: questa penetra fino nell’infinito stesso. Essa confronta le differenze infinitesime delle grandezze finite; scopre i rapporti di queste differenze, e per questa via fa conoscere quelli delle grandezze finite [si veda la scheda sul “triangolo caratteristico”], le quali confrontate con questi infinitesimi sono come altrettanti infiniti. Si può dire addirittura che questa analisi si estende al di là dell’infinito, poiché non si limita alle differenze infinitesime, ma scopre i rapporti delle differenze di queste differenze, e ancora quelli delle differenze terze, quarte e così via, senza mai trovare un termine che la possa fermare. Di modo che essa non abbraccia solamente l’infinito, ma l’infinito dell’infinito, o una infinità di infiniti.
(G. F. A. de L’Hôpital, Analisi degli infinitamente piccoli per la comprensione delle curve (1696), in U. Bottazzini, P. Freguglia, L. Toti Rigatelli, Fonti per la storia della matematica, Sansoni, Firenze 1992)
Il macrocosmo delle grandezze finite e il microcosmo degli infinitesimi sono essenzialmente isomorfi [due insiemi A e B si dicono isomorfi se essi hanno le stesse proprietà strutturali]. Ogni punto [dello spazio, a livello microscopico] ha una nuvola di parti distinte ma non distanti, che rispecchiano quelle del continuo macroscopico […] Ma se il continuo macroscopico si ritrova in quello microscopico, allora quest’ultimo deve avere anch’esso una struttura […] nella quale ogni punto ha una nuvola locale di infinitesimi. Si potrebbero così introdurre delle strutture differenziali di secondo ordine, poi di terzo e così di seguito, corrispondenti agli ordini di infinitesimo definiti da Leibniz.
(E. Giusti, Immagini del continuo, in A. Lamarra (cur.), L’infinito in Leibniz – Ed. dell’Ateneo, Roma 1990)
Che non bisogna cercare di comprendere l’infinito, ma solo pensare che tutto ciò in cui non troviamo nessun limite è indefinito.
Così noi non ci avvolgeremo mai nelle dispute dell’infinito; poiché sarebbe ridicolo che noi, che siamo finiti, cercassimo di determinare qualcosa, e con questo mezzo supporlo finito tentando di comprenderlo. Ecco perché noi non ci cureremo di rispondere a quelli che domandano se la metà di una linea infinita è infinita, se il numero infinito è pari o dispari, e altre cose simili, poiché solo quelli che s’immaginano che il loro spirito è infinito sembra debbano esaminare queste difficoltà. E quanto a noi, vedendo cose nelle quali, secondo un certo senso, non osserviamo affatto dei limiti, non asseriremo, per questo, che esse sono infinite, ma le crederemo solo indefinite. Così, poiché non sapremmo immaginare un’estensione sì grande da non concepire in pari tempo che può essercene una più grande, diremo che l’estensione delle cose possibili è indefinita. E poiché non si potrebbe dividere un corpo in parti sì piccole, che ognuna di queste parti non possa essere divisa in altre minori, noi penseremo che la quantità può essere divisa in parti, il cui numero è indefinito. E poiché noi non sapremmo immaginare tante stelle che Dio non ne possa creare di più, noi supporremo che il loro numero è indefinito, e così via.
Che differenza c’è fra indefinito e infinito.
E noi chiameremo queste cose indefinite piuttosto che infinite, al fine di riservare a Dio solo il nome d’infinito; sia perché non notiamo limiti nelle sue perfezioni, come anche perché siamo sicurissimi che non ce ne possono essere. Per ciò che è delle altre cose, noi sappiamo che esse non sono così assolutamente perfette, poiché, sebbene vi notiamo qualche volta delle proprietà che ci sembrano non aver limiti, nondimeno conosciamo che ciò procede dal difetto del nostro intelletto, e non già dalla loro natura.
(Descartes, I princìpi della filosofia, in Descartes, Opere (a cura di E. Garin), Laterza, Bari – Roma 1967)
Non resta, dunque, che la sola idea di Dio, nella quale bisogna considerare se vi sia qualche cosa che non sia potuta venire da me stesso. Con il nome di Dio intendo una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente, e dalla quale io stesso, e tutte le altre cose che sono, (se è vero che ve ne sono di esistenti) siamo stati creati e prodotti. Ora, queste prerogative sono così grandi e così eminenti, che più attentamente le considero, e meno mi persuado che l’idea che ne ho possa trarre la sua origine da me solo. […]
Né debbo supporre di concepire l’infinito, non per mezzo di una vera idea, ma solo per mezzo della negazione di ciò che è finito, così come comprendo il riposo e le tenebre per mezzo della negazione del movimento e della luce: poiché, al contrario, vedo più manifestamente che si trova più realtà nella sostanza infinita che in quella finita, e quindi che ho, in certo modo, in me prima la nozione dell’infinito che del finito, cioè prima la nozione di Dio che di me stesso. Perché come potrei conoscere che dubito e che desidero, cioè che mi manca qualche cosa, e che non sono del tutto perfetto, se non avessi in me nessuna idea di un essere più perfetto del mio, dal cui paragone riconoscere i difetti della mia natura? […]
Questa stessa idea è anche sommamente chiara e distinta, poiché tutto ciò che il mio spirito concepisce chiaramente e distintamente di reale e di vero, e che contiene in sé una qualche perfezione, è racchiuso tutt’intero in quest’idea. E questo non cessa di essere vero, sebbene io non comprenda l’infinito, e benché ci sia un’infinità di cose che non posso comprendere, e forse neppur attingere in alcun modo col pensiero: perché è della natura dell’infinito che la mia natura, che è finita e limitata, non lo possa comprendere.
(Descartes, Meditazioni metafisiche, in Descartes, Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1967)
Amsterdam, 15 aprile 1630
Signore e Reverendo Padre,
la vostra lettera datata 14 marzo, che è quella per la quale, credo, siete in pena, mi è stata consegnata dieci o dodici giorni dopo; ma poiché me ne facevate sperare altre con il corriere successivo e non erano passati che otto giorni dacché vi avevo scritto, ho aspettato a rispondervi sino ad ora, dopo aver ricevuto le vostre ultime datate 4 aprile. […]
Nella vostra lettera del 14 marzo, però, mi proponevate una questione a proposito dell’infinito, che è tutto quello che trovo in più rispetto alla vostra ultima. Dite che se ci fosse una linea infinita, essa consterebbe di un numero infinito di piedi e tese [sono due antiche unità di misura della lunghezza, la seconda delle quali corrispondente all’apertura delle braccia], e che, di conseguenza, il numero infinito dei piedi sarebbe 6 volte più grande del numero delle tese. – Concedo tutto. – Dunque, quest’ultimo non è infinito. – Nego la conseguenza. – Ma un infinito non può essere più grande dell’altro. – Perché no? Che c’è di assurdo? Soprattutto se è più grande solamente in proporzione finita, come in questo caso dove la moltiplicazione per 6 è una proporzione finita, che non attiene per nulla all’infinito. E inoltre, quale ragione abbiamo di giudicare se un infinito è più o meno grande dell’altro, visto che cesserebbe di essere infinito, se potessimo comprenderlo. Conservatemi l’onore del vostro favore. Sono il Vostro molto umile e affezionato servitore,
Descartes
(dalla lettera di Descartes a M. Mersenne del 15 aprile 1630; in R. Descartes, I. Beeckman, M. Mersenne, Lettere (1619 – 1648), a cura di G. Belgioioso e J. R. Armogathe, Bompiani, Milano 2015)
SALV. (SALVIATI) Ricordiamoci che siamo tra gl’infiniti e gl’indivisibili, quelli incomprensibili dal nostro intelletto finito per la lor grandezza, e questi per la lor piccolezza. Con tutto ciò veggiamo che l’umano discorso non vuol rimanersi dall’aggirarsegli attorno; dal che pigliando io ancora qualche libertà, produrrei alcuna mia fantasticheria, se non concludente necessariamente, almeno, per la novità, apportatrice di qualche maraviglia. […]
Avrò qualche mio pensiero particolare, replicando prima quel che poco fa dissi, cioè che l’infinito è per sé solo da noi incomprensibile, come anco gl’indivisibili; or pensate quel che saranno congiunti insieme: e pur se vogliamo compor la linea di punti indivisibili, bisogna fargli infiniti; e così conviene apprender nel medesimo tempo l’infinito e l’indivisibile. Le cose che in più volte mi son passate per la mente in tal proposito, son molte, parte delle quali, e forse le più considerabili, potrebb’esser che, così improvisamente, non mi sovvenissero; ma nel progresso del ragionamento potrebbe accadere che, destando io a voi, ed in particolare al Sig. Simplicio [sostenitore dell’opinione dei filosofi aristotelici], obiezzioni e difficoltà, essi all’incontro mi facessero ricordar di quello che senza tale eccitamento restasse dormendo nella fantasia: e però [perciò] con la solita libertà sia lecito produrre in mezzo i nostri umani capricci, ché tali meritatamente possiamo nominargli in comparazione delle dottrine sopranaturali, sole vere e sicure determinatrici delle nostre controversie, e scorte inerranti [guide infallibili] ne i nostri oscuri e dubbii sentieri o più tosto labirinti.
Tra le prime istanze che si sogliono produrre contro a quelli che compongono il continuo d’indivisibili, suol essere quella che uno indivisibile aggiunto a un altro indivisibile non produce cosa divisibile perché, se ciò fusse, ne seguirebbe che anco l’indivisibile fusse divisibile; perché quando due indivisibili, come, per esempio, due punti, congiunti facessero una quantità, qual sarebbe una linea divisibile, molto più sarebbe tale una composta di tre, di cinque, di sette e di altre moltitudini dispari; le quali linee essendo poi segabili in due parti eguali, rendon segabile quell’indivisibile che nel mezzo era collocato. In questa ed altre obbiezzioni di questo genere si dà sodisfazione alla parte col dirgli, che non solamente due indivisibili, ma né dieci, né cento, né mille non compongono una grandezza divisibile e quanta [finita], ma sì bene infiniti.
SIMP. (SIMPLICIO) Qui nasce il dubbio, che mi pare insolubile: ed è, che sendo noi sicuri trovarsi linee una maggior dell’altra, tutta volta che amendue contenghino punti infiniti bisogna confessare trovarsi nel medesimo genere una cosa maggior dell’infinito, perché la infinità de i punti della linea maggiore eccederà l’infinità de i punti della minore. Ora questo darsi un infinito maggior dell’infinito mi pare un concetto da non poter esser capito in verun modo.
SALV. Queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agl’infiniti, dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed egualità non convenghino a gl’infiniti, de i quali non si può dire, uno esser maggiore o minore o eguale all’altro. Per prova di che già mi sovvenne un sì fatto discorso, il quale per più chiara esplicazione proporrò per interrogazioni al Sig. Simplicio, che ha mossa la difficoltà.
Io suppongo che voi benissimo sappiate quali sono i numeri quadrati, e quali i non quadrati.
SIMP. So benissimo che il numero quadrato è quello che nasce dalla moltiplicazione d’un altro numero in sé medesimo: e così il quattro, il nove, etc., son numeri quadrati, nascendo quello dal dua, e questo dal tre, in sé medesimo moltiplicati.
SALV. Benissimo: e sapete ancora, che sì come i prodotti si dimandano [si chiamano] quadrati, i producenti, cioè quelli che si multiplicano, si chiamano lati o radici; gli altri poi, che non nascono da numeri multiplicati in sé stessi, non son altrimenti quadrati. Onde se io dirò, i numeri tutti, comprendendo i quadrati e i non quadrati, esser più che i quadrati soli, dirò proposizione verissima: non è così?
SIMP. Non si può dir altrimenti.
SALV. Interrogando io di poi, quanti siano i numeri quadrati, si può con verità rispondere, loro esser tanti quante sono le proprie radici, avvenga che [dal momento che] ogni quadrato ha la sua radice, ogni radice il suo quadrato, né quadrato alcuno ha più d’una sola radice, né radice alcuna più d’un quadrato solo.
SIMP. Così sta.
SALV. Ma se io domanderò, quante siano le radici, non si può negare che elle non siano quante tutti i numeri, poiché non vi è numero alcuno che non sia radice di qualche quadrato; e stante questo, converrà dire che i numeri quadrati siano quanti tutti i numeri, poiché tanti sono quante le lor radici, e radici son tutti i numeri; e pur da principio dicemmo, tutti i numeri esser assai più che tutti i quadrati, essendo la maggior parte non quadrati. E pur tuttavia si va la moltitudine dei quadrati sempre con maggior proporzione diminuendo, quanto a maggior numeri si trapassa; perché sino a cento vi son dieci quadrati, che è quanto a dire la decima parte esser quadrati; in dieci mila solo la centesima parte son quadrati, in un millione solo la millesima: e pur nel numero infinito, se concepir lo potessimo, bisognerebbe dire, tanti esser quadrati, quanti tutti i numeri insieme.
SAGR. (SAGREDO) Che dunque si ha da determinare in questa occasione?
SALV. Io non veggo che ad altra decisione si possa venire, che a dire, infiniti essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, infinite le loro radici, né la moltitudine de’ quadrati esser minore di quella di tutti i numeri, né questa maggior di quella, ed in ultima conclusione, gli attributi di eguale maggiore e minore non aver luogo ne gl’infiniti, ma solo nelle quantità terminate. […]
Passo ora ad un’altra considerazione, ed è, che stante che la linea ed ogni continuo siano divisibili in sempre divisibili, non veggo come si possa sfuggire, la composizione essere di infiniti indivisibili, perché una divisione e subdivisione che si possa proseguir perpetuamente, suppone che le parti siano infinite, perché altramente la subdivisione sarebbe terminabile; e l’esser le parti infinite si tira in consequenza l’esser non quante, perché quanti infiniti fanno un’estensione infinita: e così abbiamo il continuo composto d’infiniti indivisibili.
SIMP. Ma se noi possiamo proseguir sempre la divisione in parti quante, che necessità abbiamo noi di dover, per tal rispetto, introdur le non quante?
SALV. L’istesso poter proseguir perpetuamente la divisione in parti quante, induce la necessità della composizione di infiniti non quanti. Imperò che, venendo più alle strette, io vi domando che resolutamente mi diciate, se le parti quante nel continuo, per vostro credere, son finite o infinite?
SIMP. Io vi rispondo, essere infinite e finite: infinite, in potenza; e finite, in atto; infinite in potenza, cioè innanzi alla [prima della] divisione; ma finite in atto, cioè dopo che son divise; perché le parti non s’intendono attualmente esser nel suo tutto, se non dopo esser divise o almeno segnate; altramente si dicono esservi in potenza.
SALV. Sì che una linea lunga, v. gr., [verbi gratia: per esempio] venti palmi non si dice contener venti linee di un palmo l’una attualmente, se non dopo la divisione in venti parti eguali; ma per avanti [prima] si dice contenerle solamente in potenza. Or sia come vi piace; e ditemi se, fatta l’attual divisione di tali parti, quel primo tutto cresce o diminuisce, o pur resta della medesima grandezza?
SIMP. Non cresce, né scema.
SALV. Così credo io ancora. Adunque le parti quante nel continuo, o vi siano in atto o vi siano in potenza, non fanno la sua quantità né maggiore né minore: ma chiara cosa è, che parti quante attualmente contenute nel lor tutto, se sono infinite, lo fanno di grandezza infinita: adunque [poiché ciò che accade in atto deve essere possibile anche in potenza] parti quante, benché in potenza solamente, infinite, non possono esser contenute se non in una grandezza infinita; adunque nella finita parti quante infinite, né in atto né in potenza possono esser contenute.
SAGR. Come dunque potrà esser vero che il continuo possa incessabilmente dividersi in parti capaci di sempre nuova divisione?
SALV. Par che quella distinzione d’atto e di potenza renda fattibile per un verso quello che per un altro sarebbe impossibile. Ma io vedrò d’aggiustar meglio queste partite col fare un altro computo; ed al quesito che domanda se le parti quante nel continuo terminato siano finite o infinite, risponderò tutto l’opposito di quel che rispose dianzi il Sig. Simplicio, cioè non esser né finite né infinite.
SIMP. Ciò non arei [avrei] saputo mai risponder io, non pensando che si trovasse termine alcuno mezzano tra ‘l finito e l’infinito, sì che la divisione o distinzione che pone, una cosa o esser finita o infinita, fusse manchevole e difettosa.
SALV. A me par ch’ella sia. E parlando delle quantità discrete, parmi che tra le finite e l’infinite ci sia un terzo medio termine, che è il rispondere ad ogni segnato numero; sì che, domandato, nel presente proposito, se le parti quante nel continuo siano finite o infinite, la più congrua risposta sia il dire, non esser né finite né infinite, ma tante che rispondono ad ogni segnato numero: per il che fare è necessario che elle non siano comprese dentro a un limitato numero, perché non risponderebbono ad un maggiore; ma né anco è necessario che elle siano infinite, perché niuno assegnato numero è infinito: e così ad arbitrio del domandante una proposta linea gliela potremo assegnare segata in certo parti quante, e in mille e in cento mila, conforme a qual numero più gli piacerà; ma divisa in infinite, questo non già. Concedo dunque a i Signori filosofi che il continuo contiene quante parti quante piace loro, e gli ammetto che le contenga in atto o in potenza, a lor gusto e beneplacito; ma gli soggiungo poi, che nel modo che in una linea di dieci canne si contengono dieci linee d’una canna l’una, e quaranta d’un braccio l’una, e ottanta di mezzo braccio etc., così contiene ella punti infiniti: chiamateli poi in atto o in potenza, come più vi piace, ché io, Sig. Simplicio, in questo particolare mi rimetto al vostro arbitrio e giudizio.
(G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze, Ed. Naz. VIII, p. 73; pp. 76 – 81)
ATENIESE: Nell’insegnare a misurare le realtà che hanno lunghezza, larghezza e profondità, essi [i docenti] liberano [i loro alunni] da quella particolare forma di ignoranza, assurda e inabilitante che è insita in ogni uomo.
CLINIA: Quale ignoranza intendi?
ATENIESE: Caro Clinia, anch’io ho preso coscienza molto tardi di questa nostra condizione e il fatto mi ha veramente colpito, perché mi è sembrata una condizione non degna di uomini, ma di una qualche specie di maiali. Pertanto, ne ho provato vergogna, non tanto per me, quanto per tutto il popolo dei Greci.
CLINIA: A che ti riferisci, straniero? Suvvia, parla.
ATENIESE: D’accordo, parlerò. Meglio ancora, preferisco mostrarti questa ignoranza ricorrendo a una serie di domande. Rispondimi un po’: sai che cos’è una lunghezza?
CLINIA: Certo che lo so.
ATENIESE: E la larghezza?
CLINIA: Senz’altro.
ATENIESE: E sai pure che a queste due va aggiunta come terza la profondità?
CLINIA: Come potrei non saperlo?
ATENIESE: E non sei anche dell’avviso che tutte queste dimensioni sono fra loro commensurabili?
CLINIA: Certamente.
[…]
ATENIESE: E se invece ci fossero dei casi in cui il reciproco rapporto delle dimensioni è assolutamente impossibile, mentre, come sappiamo, noi Greci siamo convinti del contrario, non sarebbe giusto che vergognandomi a nome di tutti dicessi loro: “O voi che siete il fior fiore dei Greci, ecco qui proprio una di quelle nozioni che noi ritenevamo vergognoso ignorare. E non è forse vero che non c’è gran merito a conoscere ciò che è necessario?
CLINIA: Come no.
ATENIESE: Ma non è tutto qui, poiché ci sono molti altri problemi analoghi nei quali per noi sono in agguato errori della stessa gravità di questi.
CLINIA: Quali mai?
ATENIESE: Mi riferisco al problema dei rapporti fra grandezze commensurabili e incommensurabili e a quello della definizione della loro natura. Questo va assolutamente affrontato e risolto se non si vuole essere squalificati come uomini.
(Platone, Leggi, VII, 819 c – 820 c; in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2008)
Tutti i sillogismi per riduzione all’impossibile provano per via dimostrativa il falso, però dimostrano ipoteticamente la <proposizione> iniziale quando, essendo stata posta la contraddizione, ne derivi qualcosa d’impossibile: per esempio, che la diagonale è incommensurabile [al lato] mediante il diventare uguale il pari al dispari, se si è posto che è commensurabile. Dunque, il diventare il pari uguale al dispari viene provato per via dimostrativa, mentre l’essere la diagonale incommensurabile [al lato] si dimostra per ipotesi, poiché in forza della contraddizione deriva una falsità.
(Aristotele, Analitici Primi, I 23, 41 a 24 – 31, traduzione e cura di M. Zanatta, UTET, Torino 1996)
Il possesso di questa scienza [quella che ha come scopo la ricerca dei princìpi primi e delle cause] deve porci in uno stato contrario a quello in cui eravamo all’inizio delle ricerche. Infatti, come abbiamo detto, tutti cominciano dal meravigliarsi che le cose stiano in un determinato modo: così, ad esempio, di fronte alle marionette che si muovono da sé nelle rappresentazioni, o di fronte alle rivoluzioni del sole o alla incommensurabilità della diagonale al lato: Infatti, a tutti coloro che non hanno ancora conosciuto la causa, fa meraviglia che fra l’una e l’altro non vi sia una unità minima di misura comune. Invece, bisogna pervenire allo stato d’animo contrario, il quale è anche il migliore, secondo quanto dice il proverbio. E così avviene, appunto, per restare agli esempi fatti, una volta che si sia imparato: di nulla un geometra si meraviglierebbe di più che se la diagonale fosse commensurabile al lato.
(Aristotele, Metafisica, A (I) 2 / 3, 983 a 11 – 21, traduzione e cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1999)
Impossibile è ciò il cui contrario è necessariamente vero. Per esempio, è impossibile che la diagonale del quadrato sia commensurabile al lato, perché questo è falso e il suo contrario non solo è vero, ma è necessariamente vero: la diagonale del quadrato rispetto al lato è necessariamente incommensurabile; dunque, l’affermazione della commensurabilità non solo è falsa, ma è necessariamente falsa. Il contrario dell’impossibile, cioè il possibile, si ha quando non è necessario che il contrario sia falso: per esempio, è possibile che un uomo sia seduto, perché non è necessariamente falso che egli non sia seduto.
(Aristotele, Metafisica, Δ (V) 12, 1019 b 23 – 30, traduzione e cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1999)