Competenza: Individuare collegamenti e relazioni tra fenomeni, eventi e concetti diversi
1 BRICK
Individua, guidati, i principali collegamenti tra fenomeni e concetti appresi.
2 BRICK
Individuare in maniera ordinata collegamenti e le relazioni tra i fenomeni, gli eventi e i concetti appresi.
3 BRICK
Individuare in maniera spontanea collegamenti e le relazioni tra i fenomeni, gli eventi e i concetti appresi, anche afferenti a diverse discipline.
Analizzare alcuni brani e rispondere alle domande.
In economia, il concetto di equilibrio è probabilmente usato con maggiore prevalenza come strumento metodologico nella teoria astratta. Qui, la parola “equilibrio” è impiegata in relazione a modelli contenenti parecchie variabili legate fra loro […]
La nozione di equilibrio è utilizzata in modo diverso quando è adoperata in riferimento a situazioni economiche concrete: in tale contesto, si suppone che essa caratterizzi una situazione storica che è durata o durerà per un periodo di tempo relativamente lungo senza cambiamenti significativi […]
Alla luce della discussione precedente, nell’analisi economica possiamo definire l’equilibrio come un sistema di parecchie variabili correlate, caratterizzate da valori di ciascuna rispetto alle altre tali che, nel modello che esse costituiscono, non prevalga alcuna intrinseca tendenza al cambiamento. Naturalmente, sia il modello che i suoi punti di equilibrio sono costrutti mentali, basati sull’astrazione e sull’invenzione […]
Il mondo reale ha certamente un numero di variabili infinitamente maggiore che in qualunque modello astratto, e le effettive relazioni fra esse non sono note, né – temo – conoscibili, in parte perché è probabile che esse cambino nel tempo in modo imprevedibile. Pertanto, potrebbe non essere osservato alcun equilibrio fra un numero selezionato di variabili, anche se ciascuna di esse avesse un corrispettivo osservabile nel mondo reale […] Solo dopo aver scelto le variabili ed aver ipotizzato le loro relazioni reciproche possiamo parlare di equilibrio e disequilibrio nel senso in cui questi termini sono adoperati nell’analisi economica […] In tale stato di cose, qualunque situazione economica concreta può corrispondere, allo stesso tempo, ad un equilibrio per un modello e ad un disequilibrio per un altro.
L’oggetto dell’economia è costituito dalla concatenazione di eventi unici che compongono la storia umana […] Ogni recessione, ogni inflazione, ogni fissazione di prezzo, ogni svalutazione, ogni scoperta ed invenzione è, in linea di principio, diversa da quelle che l’hanno preceduta […] Nella storia umana – con particolare riguardo ai fenomeni sociali – il cambiamento è un elemento essenziale. Nei fenomeni economici sono il progressivo esaurimento delle risorse naturali, il progresso tecnologico e la modificazione dell’organizzazione giuridica e sociale a rendere unica ed irreversibile la catena degli eventi e dei processi […]
Il compito dell’economia come scienza non è quello di scoprire “leggi eterne” da confrontare con la realtà […] L’indagine economica non si identifica con la spiegazione di fenomeni immutabili che possono essere scoperti nei mercati babilonesi così come nelle tribù di pellerossa, nell’antichità classica, nell’agricoltura medievale e nelle moderne città […] Nel caos della realtà essa tenta di creare piccole isole di ordine intellettuale, nel flusso di eventi storici in continuo cambiamento essa tenta di individuare schemi durevoli e prevedibili. Occorre tuttavia “crearli” e non “scoprirli”, poiché queste isole e schemi razionali non esistono se non per lo sforzo di chi indaga.
Jurg Niehans, Economics: History, Doctrine, Science, Art, in Kyklos, 34(2), 1981, pp. 165-177; cit. in Carlo Alberto Ricciardi, “Economia”, in Gli strumenti del sapere contemporaneo, vol. I – Le discipline, UTET, Torino 1985.
Ammettere che la scienza abbia dei limiti e che li abbia in particolare la matematica non significa svalutarle. Al contrario. Significa riconoscere la dimensione autentica della loro potenza e della loro efficacia. La matematica non è un passe – partout per spiegare o prevedere qualsiasi cosa. Essa è nata sia dalla problematica del contare che dall’osservazione dei corpi inanimati e quindi è difficile che possa rendere molto di più di quanto promettono le sue radici sul piano della descrizione e della previsione. I tentativi di estendere le applicazioni della matematica al di fuori del campo della fisica hanno confermato tale punto di vista: fino a che abbiamo a che fare con processi che hanno una natura essenzialmente meccanica o comunque derivante da processi puramente materiali, oppure aventi un andamento essenzialmente aleatorio, la matematica si rivela uno strumento ancora assai efficace; non appena intervengono fattori soggettivi in cui il più elementare buon senso indica la presenza di scelte libere e autonome, la matematica inizia a incespicare. […]
Lo scientismo danneggia una visione ampia della ragione che includa altri punti di vista oltre a quello fisico – matematico e danneggia questo stesso approccio caricandolo di problemi che non è detto affatto che possa risolvere. Inoltre, si oppone a un punto di vista umanistico che riconosce la specificità degli esseri umani, il fatto che non sono macchine. […]
La matematica è forse la scienza che più di ogni altra è vicina a una visione umanistica. La matematica antica ha riconosciuto i problemi e le antinomie che nascono dalla trattazione dell’infinito e ha evitato di affrontarle. La matematica della Rivoluzione scientifica (la Rivoluzione scientifica è il periodo storico convenzionalmente compreso fra il 1543 (anno di pubblicazione del trattato Le rivoluzioni delle sfere celesti di Copernico) e il 1687, anno in cui fu pubblicata la prima edizione dei Principi matematici di filosofia naturale di Newton) ha invece sfidato la tematica dell’infinito e dell’infinitamente piccolo, senza riuscire a risolvere definitivamente quelle antinomie, ma indicando i modi per manipolare in senso pratico quei concetti. L’aver fatto fronte alla tematica dell’infinito e dell’infinitamente piccolo è ciò che ha stabilito fin dall’inizio stretti legami fra matematica e speculazione filosofica. Per capire a fondo la matematica è necessaria la filosofia e anche la storia della matematica stessa e della scienza. Nessuna forma di attività mentale umana è priva della capacità di portare conoscenza, non lo è neppure la letteratura, come pretende qualcuno; al contrario, la letteratura è una grande fonte di ricchezza conoscitiva. In tal senso, l’invito a coltivare l’umanesimo – a fondare un umanesimo post – digitale – è di grande valore. Ed è anche un modo per nobilitare la matematica più di quanto lo sia agitare la formula “il mondo è matematico” in modo mistico e acritico, occultandone gli insuccessi. Una matematica che pretendesse di riassorbire tutto esprimerebbe la tentazione puerile di ridurre ogni aspetto della realtà a fattori quantitativi, che debbono invece essere lasciati convivere armoniosamente con gli aspetti irriducibilmente qualitativi. Pertanto, un approccio umanistico significa anche salvare la specificità della ricchezza concettuale della matematica nelle sue relazioni con tutte le altre attività conoscitive umane, anziché impoverirla nel tentativo fallimentare di farle assorbire ogni aspetto della realtà.
Giorgio Israel, La matematica e la realtà, Carocci, Roma 2015, pp. 147 – 148; 150 – 151.
Nel campo dell’economia, la sovraspecializzazione è doppiamente disastrosa. Un uomo che è matematico e nulla più che matematico potrà condurre una vita di stenti, ma non reca danno ad alcuno. Un economista che è nulla più che un economista è un pericolo per il suo prossimo. L’economia non è una cosa in sé: è lo studio di un aspetto della vita dell’uomo in società… L’economista di domani (e talvolta dei giorni nostri) sarà certamente a conoscenza di ciò su cui fondare i suoi consigli economici; ma se, a causa di una crescente specializzazione, il suo sapere economico resta separato da ogni retroterra di filosofia sociale, egli rischia veramente di diventare un venditore di fumo, dotato di ingegnosi stratagemmi per uscire dalle varie difficoltà ma incapace di tenere il contatto con quelle virtù fondamentali su cui si fonda una società sana. La moderna scienza economica va soggetta ad un rischio reale di machiavellismo: la trattazione dei problemi sociali come mere questioni tecniche e non come un aspetto della generale ricerca della buona vita.
John R. Hicks, Education in Economics, “Bulletin of the Manchester Statistical Society”, April 1941, p. 6; cit. in S. Zamagni, Economia e filosofia (1994), in “Quaderni – Working Paper DSE” (184).
L’economista eccelso deve possedere una rara combinazione di doti. Deve raggiungere un alto livello in un gran numero di settori diversi, e deve armonizzare talenti che non si trovano spesso congiunti; deve essere, in una certa misura, matematico storico, statista, filosofo. Deve comprendere simboli ed esprimersi mediante parole. Deve osservare il particolare in relazione al generale, ed includere l’astratto ed il concreto con lo stesso atto del pensiero. Egli deve studiare il presente alla luce del passato, per conseguire futuri obiettivi. Nessun aspetto della natura umana e delle istituzioni create dall’uomo deve trovarsi interamente all’esterno della sua sfera di interessi. Deve proporsi di raggiungere degli scopi ed essere contemporaneamente disinteressato, distaccato ed indifferente come un artista e tuttavia a volte a contatto con la realtà come un politico.
John M. Keynes, Alfred Marshall, 1842 – 1924, “The Economic Journal”, Vol. 34, No. 135 (Sep. 1924), p. 322.
Rouen, 29 febbraio 1940
Mia cara sorella,
ho ricevuto le tue lettere, quella che era arrivata a Le Havre e quella che mi hai mandato qui. […]
Ciò che rende oltremodo originale la matematica greca è forse il fatto che non esiste l’approssimazione: questo ha ucciso il numero a vantaggio del lógos (è qui tutto il dramma della scoperta degli irrazionali) e ha mandato in rovina il pitagorismo per approdare a Platone e a Euclide. Naturalmente il lógos non è altro che il nostro “numero reale”. Fino ai Greci non potevano esserci incommensurabili. Avendo scoperto che il numero (ciò che chiamavano numero: vale a dire il numero intero) non era sufficiente a esprimere i rapporti fra grandezze, occorreva evidentemente ricominciare tutto da capo, dato che non si era più sicuri di niente. In algebra il metodo assiomatico è completamente inutile, giacché le proprietà elementari dell’addizione e della moltiplicazione sono troppo banali perché si senta il bisogno di esprimerle, ma in geometria non è più così. […]
Rimango il tuo affezionato fratello,
André
Parigi, marzo 1940?
Mio caro fratello,
[…] Certo, c’è stato un dramma degli incommensurabili, e di portata immensa. La divulgazione di questa scoperta ha gettato sulla nozione di verità un discredito che dura tuttora; ha fatto nascere, o quanto meno ha contribuito a far nascere, l’idea che si possano dimostrare altrettanto bene due tesi contraddittorie; i sofisti hanno diffuso fra le masse un simile punto di vista, nonché un sapere di qualità inferiore, teso unicamente verso la conquista della potenza; ne sono derivati, dalla fine del V secolo, la demagogia e l’imperialismo che ad essa è strettamente legato, le cui conseguenze hanno distrutto la civiltà ellenica; a causa di questo processo (al quale hanno certo contribuito altri fattori, segnatamente le guerre contro i Medi), le armi romane hanno potuto infine uccidere la Grecia, senza alcuna possibilità di una sua risurrezione. Ne concludo che gli dèi hanno avuto ragione di far perire in un naufragio il pitagorico colpevole di aver divulgato la scoperta degli incommensurabili.
Non credo tuttavia che fra i geometri e i filosofi vi sia stato un dramma. Il pitagorismo è stato mandato in rovina da tutt’altro (nella misura in cui lo è stato), e cioè dal massiccio massacro dei pitagorici in Magna Grecia. Del resto il pentagono stellato, che rappresenta un rapporto di incommensurabili (divisione di un segmento in estrema e media ragione), fu uno dei simboli dei pitagorici. Ma Archita (uno dei sopravvissuti) fu un grande geometra, e fu il maestro di Eudosso, autore della teoria dei numeri reali […]
Possiamo chiederci perché i Greci si siano tanto applicati allo studio della proporzione. Si tratta senz’altro di una preoccupazione religiosa, e di conseguenza (dato che si tratta della Grecia) in parte estetica. Il legame fra le preoccupazioni matematiche da un lato e quelle filosofico – religiose dall’altro, legame la cui esistenza è storicamente attestata per l’epoca di Pitagora, risale certamente a molto tempo prima. […] Penso dunque che la nozione di proporzione sia stata fin da un’Antichità abbastanza remota oggetto di una meditazione che costituiva uno dei procedimenti di purificazione dell’anima, forse il procedimento principale. È fuor di dubbio che questa nozione era al centro della dell’estetica, della geometria, della filosofia dei Greci. […] La purezza dell’anima era il loro unico assillo; “imitare Dio” ne era il segreto; lo studio della matematica aiutava a imitare Dio in quanto in quanto consideravano l’universo come sottomesso alle leggi matematiche, il che faceva del geometra un imitatore del legislatore supremo. […]
Il fatto è che per i Greci la matematica era veramente un’arte. Il suo scopo era il medesimo di quello della loro arte, ovvero rendere sensibile un’affinità fra la mente umana e l’universo, fare apparire il mondo come “la città di tutti gli esseri dotati di ragione” [La citazione è da Marco Aurelio, A se stesso, IV, 4]. […]
Fraternamente,
Simone
Rouen, 28 marzo 1940
Mia cara sorella,
devo fare alcune osservazioni sulla teoria della matematica greca; in parte più tecniche, in parte di ordine generale. […]
Torniamo ai Greci. Come pensi che abbiano scoperto l’incommensurabile? Mi pare di ricordare che al riguardo non si abbia nessun dato certo, e di aver visto da qualche parte un suggerimento ingegnoso, con una discesa infinita in cui la cosa si vedeva su un quadrato e la sua diagonale [si veda il sottostante triangolo OBA, rettangolo in B, in cui BC è l’altezza relativa all’ipotenusa] (corrispondente numericamente a questo: si ha = ; ebbene [La proporzione che segue nel testo esprime l’enunciato del primo del teorema di Euclide applicato al triangolo rettangolo OBA, in cui a = OA, b = OB, c = OC: tale uguaglianza di rapporti è una interpretazione geometrica dell’uguaglianza numerica 2 +1/1 = 1/(√2 – 1)], se a : b = b : c, e se a, b, c hanno una misura comune, allora lo stesso vale per tutte le lunghezze ottenute continuando la progressione verso il basso, il che è assurdo, giacché le lunghezze OB’, OC’, OB’’, OC’’, ecc. diventano piccole quanto si vuole). […]
Da quel che mi sembra, Eudosso deve essere stato il primo matematico nella storia greca. Hai un bel dire che è un seguace del pitagorismo, ma non posso pensare che questo importi molto. […] D’altro canto trovo molto seducenti, e nel contempo abbastanza verosimili, le tue idee sul ruolo della proporzione nella storia del pensiero greco. Questo conferma un po’, mi sembra, che vi è stato un dramma nella vicenda degli incommensurabili. La proporzione è ciò che si nomina; il fatto che vi siano rapporti che non sono nominabili (e nominabile è un rapporto fra numeri interi), che vi siano stati dei lógoi álogoi, l’espressione stessa è tanto sconvolgente che non posso credere che […] un fatto così straordinario abbia potuto essere preso per una semplice scoperta scientifica […]
Fraternamente,
A.
[Parigi, fine marzo – aprile 1940]
Mio caro fratello,
la mia idea, sulla scoperta degli incommensurabili, è che i Greci abbiano cominciato con lo scoprire non già che la diagonale del quadrato è incommensurabile, ma che fra due numeri di cui uno è il doppio dell’altro non c’è media proporzionale. Come indizi storici, conosco solo due testi. Uno, di Platone, nel Menone, dove Socrate, per provare che ogni anima – compresa quella degli schiavi – proviene dal “cielo intelligibile”, interroga uno schiavo sulla duplicazione del quadrato, e gli fa trovare (con domande ben ponderate) che il doppio di un quadrato si ottiene prendendo la diagonale come lato. Nient’altro; ma la scelta del problema (duplicazione del quadrato) suggerisce che sia legato a una conoscenza che attesta in modo eminente l’origine divina dell’intelligenza umana; e quale sarebbe, questa conoscenza, se non quella degli incommensurabili? L’altro testo è di Aristotele; dice che l’incommensurabilità della diagonale si dimostra per assurdo: perché se la diagonale fosse commensurabile, il pari sarebbe uguale al dispari. Il numero pari e nel contempo dispari è chiaramente quello che misura la diagonale. Siccome i pitagorici (autori della scoperta) davano il nome di aritmetica allo studio del pari e del dispari, non è affatto inverosimile, anzi, che quella dimostrazione sia loro. Cercando una media proporzionale fra un numero e il suo doppio è possibile che si siano chiesti, prima di trovarla, se fosse pari o dispari; e abbiano visto che necessariamente è al tempo stesso l’uno e l’altro; e ne abbiano concluso che non esiste. […]
Quando dico che non c’è stato dramma degli incommensurabili, non voglio dire che i Greci non siano stati sconvolti dall’emozione per quella scoperta. So che lo sono stati; se ne vede traccia dappertutto. […] Ma penso che quella emozione sia stata gioia, e non angoscia. Come puoi vedere da quel che precede, penso che siano stati non già stupiti che vi fossero rapporti non definibili dai numeri, quanto intensamente felici nel vedere che anche ciò che non si definisce tramite numeri continua a essere un rapporto. […] Gli uomini di second’ordine probabilmente sono rimasti costernati; gli altri sicuramente si sono estasiati […] Ad ogni modo penso che gli incommensurabili abbiano dato ai Greci l’idea d’intelligibile puro, ossia, detto in maniera più precisa, che abbiano loro procurato verità che esigono, perché le si colga, una separazione fra intelligenza e uso dei sensi più netta di quella richiesta dalle proposizioni relative ai numeri; per questo sono sembrati loro un dono degli dèi. […]
Se Pitagora, come suppongo, ha costruito un triangolo rettangolo con due triangoli simili per formare delle medie proporzionali [Il triangolo rettangolo OBA disegnato nella lettera del 28 marzo 1940 si può ottenere unendo i triangoli simili OBC e BCA, aventi il lato BC in comune. Un caso particolare di questa costruzione è quello in cui OA = 2 OC]; se ha così ottenuto una media fra un numero e il suo doppio, sapendo già che non avrebbe potuto ottenerla in numeri; se ha concepito il rapporto fra quella media e quel numero come un rapporto esatto, cosa che sembravaindicare che il potere dell’intelligenza si estende a tutto quello che non si calcola – allora si capisce benissimo il tono di esaltazione estatica che caratterizza qualsiasi evocazione della geometria, e segnatamente degli incommensurabili. Altrimenti non si capirebbe.
Trovare nei numeri leggi che permettano di definire in anticipo i caratteri (pari, dispari, quadrato, ecc.) di numeri che non abbiamo formato noi – trovare, laddove il numero non può fornire alcun aiuto, rapporti non numerici esatti come i rapporti fra numeri – ecco due cose inebrianti, ma la seconda molto di più.
Penso quindi che la nozione di proporzione, quale compare nel quinto libro di Euclide, sia di molto anteriore a Eudosso. (E’ quello che volevo suggerire segnalando la matrice pitagorica di Eudosso). La filosofia di Platone è incomprensibile se non si ammette che egli abbia avuto questa nozione. A rigore, avrebbe potuto mutuarla da Eudosso, suo contemporaneo – ma nessuna tradizione, né, credo, nessuna internal evidence indica che abbia ricevuto una rivelazione da un contemporaneo. Avrebbe forse messo in bocca a Socrate l’allusione alla diagonale del quadrato, che ti ho ricordato, se al tempo di Socrate fosse stata oggetto di scandalo e segno di un fallimento? […]
Nelle cose visibili, la proporzione permette al pensiero di cogliere in un sol colpo una diversità complessa, dove, senza il soccorso della proporzione, si perderebbe. L’anima umana è esiliata nel tempo e nello spazio, che la privano della sua unità; tutti i procedimenti di purificazione valgono a liberarla dagli effetti del tempo, in modo che giunga a sentirsi quasi a casa propria nel luogo stesso del suo esilio. Il solo fatto di poter cogliere in un sol colpo una molteplicità di oggetti, di poter concepire in un sol colpo una molteplicità di punti di vista su uno stesso oggetto rende l’anima felice; ma bisogna che la regolarità e la diversità siano combinate in modo che il pensiero sia incessantemente sul punto di perdersi nella diversità e incessantemente salvato dalla regolarità. Ma gli oggetti fabbricati a questo scopo non bastano; il pensiero aspira a concepire il mondo stesso come analogo a un’opera d’arte, all’architettura, alla danza, alla musica. A questo scopo bisogna trovarvi la regolarità nella diversità, vale a dire delle proporzioni. […]
Agli occhi dei Greci la misura, l’equilibrio, la proporzione e l’armonia costituivano il principio stesso della salvezza dell’anima, perché i desideri hanno come oggetto l’illimitato. Concepire l’universo come un equilibrio, un’armonia, è come farne uno specchio della salvezza. Anche nei rapporti fra gli esseri umani il bene consiste nell’eliminare l’illimitato; in questo risiede la giustizia (che può allora definirsi solo mediante l’uguaglianza). Lo stesso vale nei rapporti di un uomo con se stesso. Sulla “uguaglianza geometrica” come suprema legge dell’universo e al tempo stesso condizione per la salvezza dell’anima c’è un passo del Gorgia [Platone, Gorgia, 507 e – 508 a [“A questo scopo [l’uomo] deve volgere tutte le energie sue e quelle della Città: che giustizia e temperanza siano presenti in chi vuole essere felice. In questo modo egli deve comportarsi e non deve permettere che le sue passioni si sfrenino, per poi cercare di soddisfarle – male interminabile! – vivendo, così, una vita da ladro. Infatti, quest’uomo non potrebbe essere amico né ad altro uomo né a un dio, perché non ha capacità di comunanza con essi, e dove non c’è comunanza non ci può essere neppure amicizia. E i sapienti dicono, o Callicle, che cielo, terra, dei e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza e dalla giustizia: ed è proprio per tale ragione, o amico, che essi chiamano questo intero universo “cosmo”, ordine, e non, invece, disordine o dissolutezza. Ora, mi sembra che tu non ponga mente a queste cose, pur essendo tanto sapiente, e mi sembra che ti sia sfuggito che l’uguaglianza geometrica ha un grande potere fra gli dei e fra gli uomini. Tu credi, invece, che si debba perseguire l’eccesso: infatti trascuri la geometria!”] [trad. di G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2001]]. […]
Fraternamente,
Simone
(Simone Weil – André Weil, L’arte della matematica, Adelphi, Milano 2018, pp. 17; 20 – 21; 30; 36 – 40; 67; 70; 72 – 73; 76 – 78; 80; 105 – 106; 94 – 95. Simone Weil non rispose alla lettera del fratello del 29 marzo 1940, ma redasse due abbozzi di risposta, di cui sono qui riportati alcuni estratti).
[Gli insetti che] nascono dall’accoppiamento degli animali dello stesso genere, prolificano anch’essi secondo il genere, quelli invece che nascono non da animali ma dalla materia putrefatta [secondo la teoria della generazione spontanea] generano sì, ma prole di genere diverso che non è né femmina né maschio. Così dunque è una parte degli insetti. Il che peraltro accade a ragione. Se infatti dall’accoppiamento di animali non nati da animali nascesse prole e questa fosse simile ai genitori, la similarità dovrebbe riguardare fin dal principio anche il modo della nascita dei genitori. A ragione riteniamo questo, perché così succede manifestamente per tutti gli altri animali. Se invece la prole fosse dissimile ma capace di accoppiarsi, da essa daccapo si produrrebbe una natura diversa, e poi un’altra ancora diversa e così via all’infinito. Ma la natura evita l’infinito, perché l’infinito è incompiuto e la natura ricerca sempre un compimento.
(Aristotele, La riproduzione degli animali, I, 715 b, traduzione e cura di D. Lanza, UTET, Torino 1971)
È chiaro che, se l’infinito non esiste assolutamente, si hanno molte conseguenze impossibili. Il tempo avrà un inizio e una fine, le grandezze [geometriche] non saranno divisibili in grandezze e il numero non sarà infinito. Ma dal momento che, in base alle distinzioni precedenti, non sembra ammissibile né una cosa né l’altra, occorre un arbitro: evidentemente in un senso l’infinito è e in un altro non è. Si dice che l’essere è in potenza o in atto e l’infinito è sia per addizione che per divisione. Ma la grandezza in quanto è in atto non è infinita, come si è detto, ma lo è per divisione, perché non è difficile confutare la teoria delle linee indivisibili. Rimane, dunque, che l’infinito è in potenza. Ma non bisogna assumere “ciò che è in potenza” nel senso in cui, per esempio, si dice che, se questo materiale è potenzialmente una statua, allora sarà una statua. In questo senso sarebbe infinito ciò che sarà in atto. Ma poiché l’essere si dice in molti modi, come si dice “il giorno è”, “la gara è”, in quanto diventano sempre altro e poi altro, così è l’infinito. E infatti anche a questi esempi si applica l’essere in potenza e in atto, perché i giochi olimpici sono sia in quanto possono aver luogo sia in quanto hanno luogo. E’ chiaro che l’infinito ha sensi diversi, se applicato al tempo, o alle generazioni umane o alla divisione delle grandezze. In generale, infatti, l’infinito è così, nel senso che è assunto sempre diverso, e ciò che è assunto è sempre finito, ma sempre diverso e poi ancora diverso. … Ma nelle grandezze ciò che è assunto permane, mentre nel tempo e nelle generazioni umane scompare, ma in modo da non lasciare nulla.
(Aristotele, Fisica, III 6, 206 a, 206 b 1 – 4; in G. Cambiano, Filosofia e scienza nel mondo antico, Loescher, Torino 1976)
Infinita è dunque quella grandezza della quale, rispetto alla quantità data, è possibile continuare a prendere una parte sempre nuova. Mentre ciò al di fuori del quale non c’è nulla, questo è ciò che è compiuto [téleion] e intero. In questo modo, infatti, viene definito l’intero: ciò che non manca di nulla; ad esempio, un uomo è un intero, oppure un forziere. E ciò è vero tanto nelle cose particolari, quanto anche in ciò che è considerato intero in senso generale: ad esempio, l’intero come ciò rispetto al quale nulla esiste al di fuori. Mentre ciò al di fuori del quale si dà qualcosa, manca di qualcosa e non è intero, per quanto infima sia la parte che gli manca. “Intero” e “compiuto” sono, o del tutto identici, o pressoché della stessa natura. Ma niente è compiuto se non ha un termine [télos], mentre il termine è limite.
(Aristotele, Fisica, III 6, 207 a 7 – 15, traduzione e cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995)
R. Radice, in Fisica, Bompiani, Milano 2011, qui traduce téleion con “perfetto” anziché “compiuto” e télos con “fine” (inteso come sinonimo di “scopo”) anziché “termine”. La sua traduzione dell’ultimo periodo dello stesso brano aristotelico è: Ma niente è perfetto, se non quello che ha un fine, e il fine è il limite.
Questo discorso non intende affatto sottrarre ai matematici le loro indagini, per il fatto che esso nega che l’infinito sia tale da essere in atto percorribile in direzione dell’accrescimento. Essi non hanno infatti bisogno in questo momento dell’infinito (infatti non ne fanno uso), ma soltanto di una quantità finita grande quanto essi vogliono e che, nello stesso rapporto con il quale è divisa la grandezza massima, con questo stesso rapporto possa essere divisa qualsiasi altra grandezza, sicché in relazione alle loro dimostrazioni non importerà affatto che l’infinito esista nelle grandezze esistenti.
(Aristotele, Fisica, III 7, 207 b 27 – 34; in G. Cambiano, Filosofia e scienza nel mondo antico, Loescher, Torino 1976)
E’ assurdo prestare credito al pensiero, perché l’eccesso e il difetto non hanno luogo nella cosa, ma nel pensiero. Infatti ciascuno di noi si potrebbe pensare molte volte se stesso, accrescendolo all’infinito. Ma che esso esista fuori della stessa grandezza che abbiamo noi non è per il fatto che lo si pensi, ma per il fatto che esiste. Il pensarlo, invece, è accidentale. Il tempo, il movimento e il pensiero sono infiniti [Secondo Aristotele, l’infinità del movimento deriva dalla continuità dello spazio in cui esso si compie, e quindi dalla infinita divisibilità di quest’ultimo] ma senza che persista ciò che è assunto. La grandezza, invece, non è infinita né per sottrazione né per aumento effettuati nel pensiero.
(Aristotele, Fisica, III 8, 206 a 14 – 22; in G. Cambiano, Filosofia e scienza nel mondo antico, Loescher, Torino 1976)
Il profitto (o utile netto) di una azienda realizzato in un determinato periodo di tempo è la differenza fra i ricavi totali e i costi totali dell’impresa nell’intervallo temporale considerato. Il grafico che segue rappresenta la variazione del profitto P ottenuto dal proprietario del forno “Panis” di Roma in funzione della quantità Q di pane venduta presso il suo esercizio commerciale nella settimana compresa fra il 6 ottobre 1582 e il 12 ottobre 1582.
Analizzare i seguenti brani e rispondere alle domande di un questionario.
Un confronto fra la meccanica e l’economia pura si presenta facilmente. Immaginiamo perciò di cogliere le impressioni che un cultore della meccanica può risentire nello studio della economia.
Il concetto dell’homo oeconomicus che ha dato luogo a tante discussioni, che ha suscitato così grandi difficoltà e che tuttora trova delle menti ribelli ad accettarlo, riesce al nostro meccanico così naturale, che egli prova una vera sorpresa dell’altrui diffidente meraviglia suscitata da questo essere ideale e schematico. Egli vede nell’homo oeconomicus un concetto analogo a quelli che per una lunga consuetudine gli son divenuti famigliari. Egli è avvezzo infatti ad idealizzare le superficie ritenendole senza attrito, i fili ammettendoli inestensibili, i corpi solidi supponendoli indeformabili, ed è solito a sostituire ai fluidi della natura i liquidi e i gas perfetti (nell’ambito dei fenomeni esclusivamente meccanici (e quindi senza considerare la temperatura), un fluido (liquido o aeriforme) si dice perfetto o ideale quando ha viscosità nulla ed è incompressibile).
E non solo ha l’abitudine di tutto ciò, ma sa il vantaggio che recano questi concetti.
Se il cultore della meccanica procede innanzi, si accorge, che tanto nella sua scienza che in quella economica tutto si riduce ad un giuoco di tendenze e di vincoli, questi limitanti l’azione delle prime, che per reazione generano delle tensioni. Da questo insieme nasce talora l’equilibrio, talora il moto, d’onde una statica ed una dinamica e nell’una e nell’altra scienza.
Noi abbiamo già accennato alle vicende che l’idea di forza ha avuto in meccanica; dalle vette della metafisica essa è discesa nel campo degli enti misurabili. Così in economia non è più ora il momento di parlare col JEVONS della espressione matematica delle quantità non misurabili. Lo stesso PARETO sembra rinunziare all’idea di ofelimità, che era la pietra angolare del suo primitivo edificio e viene a concetti puramente quantitativi…
V. Volterra, in “Annuario della R. Università di Roma” (1901)
La economia matematica col risolvere rigorosamente dei problemi ben determinati ed in un campo i cui limiti sono nettamente definiti deve offrirci una base di dati positivi, sui quali poter appoggiare con sicurezza il giudizio intorno alla sua pratica da seguire nelle varie circostanze.
Ma essa lascia sempre aperta la discussione intorno alle grandi questioni di indole morale e politica, a cui i detti risultati dovranno applicarsi.
Una tal cosa non è propria solo della economia matematica, ma può ripetersi per ogni altra applicazione pratica delle matematiche. Io credo che non sarà mai di troppo insistere sopra questo carattere di relatività ed il lumeggiarlo onde impedire che abbiano da nascere illusioni sulla portata e sul significato delle applicazioni delle matematiche; illusioni che potrebbero compromettere il loro valore di fronte al pubblico che se ne interessa.
V. Volterra, recensione al Manuale di economia politica di V. Pareto (1906)
Le citazioni di Volterra sono tratte da B. Ingrao, G. Israel, La mano invisibile, Laterza, Roma – Bari 1987.
Why did economists fail to foresee the crisis? In visita alla London School of Economics, nel 2009, la regina Elisabetta aveva chiesto – con regale candore – come mai gli economisti non avessero previsto la crisi. Dieci autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla regina che una delle ragioni principali dell’incapacità della professione di dare avvertimenti tempestivi circa la crisi imminente è una formazione inadeguata degli economisti, così che la teoria economica egemone – l’economics – è diventata una branca delle matematiche applicate.
I firmatari della lettera ricordano anche che l’insospettabile American Economic Association aveva costituito, nel 1988, una commissione sull’insegnamento postuniversitario dell’economia negli Stati Uniti. La commissione, nelle sue conclusioni, manifestò il timore che “i programmi di formazione postuniversitaria possano produrre una generazione con troppi idiot savants [sapienti sciocchi], addestrati alle tecniche ma ignari delle questioni economiche importanti”. Nell’educazione degli economisti, aggiungono i firmatari della lettera, vengono omesse la storia economica, la filosofia e la psicologia, e non vengono messe in discussione né l’opinabile credenza in una “razionalità” universale né l’”ipotesi di mercati efficienti”. Anche per questa ragione non si è dato il peso dovuto agli avvertimenti non quantificati circa la potenziale instabilità del sistema finanziario globale. C’è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L’unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza – l’orgogliosa consapevolezza – della dimensione politica dell’analisi economica.
Giorgio Lunghini, Conflitto, crisi, incertezza, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 30 – 31.
La mezzadria è un sistema di conduzione e di contratto agrario nel quale il proprietario di un terreno (concedente) e il mezzadro, in proprio e quale capo di una famiglia colonica, si associano per la coltivazione di una azienda promiscua (podere) e per l’esercizio delle attività connesse al fine di dividerne (a metà) i prodotti e gli utili. Patti di tipo mezzadrile si diffusero in varie parti d’Europa, a partire dal basso Medioevo, e in Asia orientale. Particolare importanza ebbe in alcune regioni italiane (Toscana, Umbria, Marche, Emilia-Romagna) la mezzadria poderale, a breve termine, che obbligava una famiglia a condurre un podere (complesso di terre con annessa abitazione), a fornire, talvolta, parte delle sementi e a migliorare il fondo. Il proprietario stabiliva, invece, le colture da farsi e percepiva una quota del prodotto, in genere la metà.
Con l’aumento demografico dell’età moderna, le aspiranti famiglie mezzadrili, in concorrenza tra loro, dovettero aumentare le prestazioni e accettare una minore quota del prodotto, spesso insufficiente al fabbisogno. Il conseguente indebitamento indeboliva ancor di più le famiglie dei conduttori che si trasformarono spesso, di fatto, in salariati del proprietario, ma legate alla terra anche per molte generazioni. L’aumento degli obblighi per i mezzadri consentì invece ai proprietari di accrescere la rendita senza forti investimenti. Ciò contribuì a ostacolare la diffusione del capitalismo agrario nelle zone mezzadrili dove si creò un vero e proprio sistema sociale legato alla mezzadria, con influenza sui comportamenti sociali e politici e perfino sul paesaggio. In Italia la mezzadria fu abolita nel 1964 e trasformata in affitto in denaro (da Dizionario di storia, Il Saggiatore, Bruno Mondadori 1993).
Secondo lo storico inglese Philip Jones (Economia e società nell’Italia medievale, Einaudi, Torino 1980), nell’Europa post-curtense l’Italia “fu il primo paese nel quale la terra riacquistò valore come mezzo di arricchimento, anziché come base del potere signorile” (p 391).
Valutare la ripresa del XI sec. e alla crisi del XIV sec. in relazione al solo fattore climatico: individuare almeno 5 effetti sintetici del peggioramento climatico e scrivere se c’è una relazione diretta, indiretta o assente con il fattore climatico.
Valutare la ripresa del XI sec. e alla crisi del XIV sec. in relazione al solo fattore climatico: individuare almeno 5 effetti sintetici del miglioramento climatico e scrivere se c’è una relazione diretta, indiretta o assente con il fattore climatico.